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Covid-19, la Cina tra diplomazia e propaganda
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Mercoledì scorso la Francia ha ricevuto un milione di mascherine per uso medico provenienti dalla Cina. Qualche giorno prima era stato il turno del Belgio (cinquecentomila maschere e trentamila test) e della Spagna (cinquecentomila maschere). Tutte donazioni generose provenienti da due fondazioni finanziate da Alibaba, il gigante cinese di internet di proprietà del miliardario Jack Ma. In Serbia, invece, il presidente Aleksandar Vučić si è lasciato andare a un discorso pubblico drammaticamente critico nei confronti degli europei e ha lodato – e richiesto – l’aiuto cinese.

In Italia, come sappiamo, gli aiuti cinesi sono stati particolarmente rilevanti. Non soltanto in termini di materiale ma anche di personale medico. Aiuti a cui hanno partecipato anche le aziende cinesi. Come Huawei, che ha promesso la propria tecnologia per migliorare il flusso dei dati e proteggere gli ospedali italiani in difficoltà. O come Zte che ha donato duemila mascherine al comune dell’Aquila, città in cui l’azienda cinese collabora con l’università sulla sperimentazione del 5G.

Apprezzamenti e ringraziamenti da parte dei paesi europei non sono mancati. Anche se la Cina ha spesso manipolato i ringraziamenti, come è accaduto nei video trasmessi dalle televisioni della repubblica popolare. Una manipolazione che non fa parte solo di una propaganda a uso interno: la Cina sta cercando di proporre una narrazione diversa da quella che inizialmente si era sviluppata sulle responsabilità delle autorità nella gestione del coronavirus.

Una narrazione che s’appoggia sulle donazioni fatte a paesi come l’Italia e la Francia. E contro la quale a poco sono servite le precisazioni.

Infatti, sia il ministro degli esteri francese Jean-Yves Le Drian, sia la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen hanno ricordato l’impegno europeo per la Cina nei mesi precedenti e le cinquanta tonnellate di materiale inviato per fronteggiare l’emergenza. Soltanto la Francia a metà febbraio aveva inviato in Cina diciassette tonnellate di aiuti, un’azione a cui aveva contribuito anche LVMH (Louis Vuitton). Eppure all’epoca i governi europei non avevano fatto tutta questa pubblicità. Perché in realtà dietro gli aiuti cinesi c’è altro.

È indubbio che, dietro la “diplomazia delle mascherine”, l’aiuto cinese sia fondamentale in questa fase di difficoltà dei sistemi sanitari nazionali dei paesi occidentali. Non bisogna però dimenticare che il gigante asiatico sta conducendo una campagna di relazioni pubbliche.

L’obiettivo è dimostrare che il paese che ha dato origine al virus – e che lo ha nascosto per settimane, se non di più secondo il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post(Alibaba) – è in prima linea “per salvare tutti noi”. Un contrasto ancor più forte mentre l’Unione europea è bloccata e gli Stati Uniti dell’era Trump sono ripiegati su se stessi.

L’operazione che la Cina sta conducendo coinvolge i media cinesi ma anche i moltissimi rappresentanti ufficiali e non della repubblica popolare nei diversi paesi. E soprattutto una macchina, quella della propaganda, che è ben oliata. Come aveva raccontato già tempo fa Libération, una dei primi atti di Xi Jinping, una volta arrivato al potere, è stata la ri-fondazione del “Fronte Unito”, un organo creato nel 1942 per infiltrarsi nei circoli intellettuali. Lo scopo di quest’organo, che conta più di quarantamila dipendenti pubblici, è quello di monitorare la percezione della Cina all’estero.

Il New York Times ha recentemente analizzato i tweet dei rappresentanti ufficiali, dei media di stato – diretti e indiretti –, per cercare di capire gli obiettivi perseguiti dalla propaganda cinese in questo momento. Il quotidiano statunitense ne ha individuati tre: diffondere ottimismo sulla situazione; difendere il buon nome del paese; attribuire ad altri la diffusione del coronavirus.

Ora qualcuno potrebbe dire che la Cina non riesce a diffondere ottimismo sulla situazione. Però – attenzione – non si tratta di un ottimismo generalizzato. Ciò che interessa alla propaganda cinese è diffondere un’idea “ottimista” del ruolo della Cina nel mondo.

L’importante è mettere in evidenza che la Cina sta conducendo la battaglia contro il Covid-19 da una posizione di leadership (benigna, come dimostra l’invio del materiale sanitario). Il messaggio è: “ne usciremo grazie agli sforzi della comunità internazionale, guidata dalla Cina”. 

Poco importa che le autorità cinesi abbiano tenuto nascosta la realtà della situazione o abbiano censurato medici e cittadini che cercavano di raccontare quello che stava accadendo nel paese. La responsabilità delle autorità cinesi nell’aggravarsi della situazione internazionale è passata completamente in secondo piano.

In breve tempo la narrazione che la Cina è riuscita a imporre, attraverso una propaganda condotta sui social e sui media tradizionali, è quello di un paese leader nella lotta contro il coronavirus. E quello più attrezzato per farlo.

Una propaganda a cui partecipano indirettamente i media occidentali. Come indicato anche da France24 le immagini di Xi Jinping in visita a Wuhan e le cerimonie per festeggiare la chiusura degli ospedali costruiti in fretta e furia fanno parte dell’offensiva cinese per migliorare la propria immagine esterna e interna.

Accanto alla diffusione di ottimismo rispetto alla situazione internazionale, l’altro obiettivo è appunto la protezione dell’immagine della Cina. La Cina è quindi “un partner amichevole”, che fornisce aiuti agli altri paesi, in un impegno collettivo a cui partecipano governo e aziende cinesi. 

Ancora a discapito del ruolo avuto dalle autorità cinesi nella gestione iniziale del coronavirus, l’idea che si vuole trasmettere è che la risposta cinese al Covid-19 abbia contributo a “far guadagnare del tempo”. Questo almeno è quel che sostiene l’account Twitter ufficiale del ministero degli esteri cinese.

Alla protezione dell’immagine del paese concorrono anche i media di stato, a cui Xi Jinping ha chiesto di raccontare “le storie toccanti” dell’epidemia, quelle che mettono in risalto l’aspetto positivo della risposta cinese alla crisi. In quest’ottica anche la figura di Li Wenliang, il medico che per primo aveva lanciato l’allarme sulla comparsa di una pericolosa serie di casi di polmonite, viene utilizzata.

Infine il terzo aspetto è quello più inquietante. Per anni l’Unione europea ha combattuto – anche attraverso organismi ad hoc – la diffusione di fake news provenienti dalla Russia. Eppure oggi è la Cina che si sta adoperando in maniera massiccia per diffondere notizie false e teorie complottiste. E lo fa dai massimi livelli. 

Lo ha fatto già a fine febbraio, quando Zhong Nanshan, uno degli scienziati che lavora col governo cinese, ha affermato:

Anche se il Covid-19 è stato per la prima volta individuato in Cina, non significa che sia originario della Cina.

Dichiarazioni ripetute poi dal personale diplomatico, come il caso dell’ambasciatore cinese in Sud Africa. E poi qualche giorno dopo è Lijan Zhao, portavoce del ministro degli esteri, che fa un passo ulteriore. Il diplomatico pubblica infatti sul suo profilo Twitter (che ironia della sorte è bloccato in Cina, assieme a molti altri social media) un articolo di Global Research, un sito web noto per la diffusione di teorie complottiste e fake news.

Nell’articolo si dice essenzialmente che il virus è una creazione degli Stati Uniti. Secondo questa teoria propagandata dalle autorità e dai media cinesi, il coronavirus sarebbe stato introdotto nel paese da militari americani in visita a Wuhan in ottobre dell’anno scorso.

Il resto lo fa una rete organizzata di account social. Come ha ben descritto Axios, numerosi ambasciatori, ambasciate e consolati hanno aperto il loro account Twitter in ottobre 2019. Nonostante i pochissimi tweet, alcuni di questi account hanno già raccolto decine di migliaia di follower. E oggi questi account stanno coordinando i loro messaggi attorno al coronavirus.

Le autorità cinesi, tuttavia, non cercano soltanto di fornire una narrazione differente in termini d’immagine della Cina per obiettivi di breve periodo. Come ha sottolineato Antoine Bondaz su Le Temps, ricercatore a Sciences Po, la crisi sanitaria è un’occasione geopolitica per convincere i paesi in via di sviluppo che la Cina è indispensabile. Purtroppo, quest’idea è rafforzata dall’incapacità europea, nel breve termine, di aiutare gli altri paesi.

Il ricercatore francese sottolinea anche che tra gli obiettivi cinesi c’è l’esaltazione di un modello di governance presentato come più efficace rispetto ai modelli occidentali. 

Parte dell’opinione pubblica in Europa potrebbe essere sedotta da questa propaganda cinese e, in definitiva, dal modello di governo autoritario cinese e dai suoi successi. Non solo i paesi potrebbero cercare di giustificare un ulteriore controllo sulle popolazioni in nome della sicurezza sanitaria. I partiti populisti potrebbero usare esempi semplicistici per promuovere una forma di autoritarismo e sfidare l’idea stessa della cooperazione europea.

Soprattutto c’è il tentativo da parte cinese di creare divisioni nel mondo occidentale e al momento ci sta riuscendo. Grazie anche all’incapacità degli stati europei di coordinarsi rispetto alla gestione del coronavirus. E all’assenza degli Stati Uniti dell’era Trump, che hanno allentato i legami tra le due sponde dell’Atlantico.

L’Italia in questo senso è un esempio efficace. Non è casuale che sia il nostro paese il principale destinatario degli aiuti cinesi. È il solo paese del G7 che partecipa alla Belt and Road Initiative. È quello con maggiori difficoltà economiche pregresse. E quello in cui i partiti populisti giocano un ruolo non irrilevante, al governo e all’opposizione. I Cinque stelle e il ministro degli esteri Luigi Di Maio hanno poi esaltato la cooperazione italo-cinese (che è benvenuta ma dovrebbe essere più cauta). 

Se la propaganda cinese sta avendo successo nel nostro paese, lo vedremo nei prossimi mesi. Tuttavia vale la pena di ricordare che una propaganda che funzioni bene non ha bisogno soltanto di elementi esterni che la producano. Una propaganda si alimenta di miti e stereotipi ben radicati in una società. Walter Lippmann diceva infatti che il mito, che genera lo stereotipo, nasce dal contesto informativo esterno ma è anche un prodotto della coscienza, in questo caso nazionale.

E nel nostro paese sono ben radicati alcuni miti. Come quello del paese vittima degli altri – i cattivi europei, francesi e tedeschi che invidiano il Belpaese – che per molto tempo hanno alimentato stereotipi (e giustificato l’ingiustificabile).
Marco Michieli
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