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Ayodhya, la città degli Dei
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    Ayodhya
“Sister! Peacock!” Ram Lal, fermo sul ciglio della strada per fare un bisognino, si riabbottona i pantaloni e corre freneticamente verso di me. “Peacock! There is a peacock!”. Il mio sguardo denuncia inequivocabilmente, perfino agli occhi di un bambino indiano di dieci anni, che non ho assolutamente capito il motivo di tanta eccitazione. “Che diavolo è un peacock?”. La faccia di Laloo (a dieci anni è ancora in età da vezzeggiativi) è quasi più sorpresa della mia. “Ma come, è un animale…peacock è inglese, non hindi!”. Vero, ma la zoologia non è mai stata il mio forte. Così, chiedo al piccolo di descrivermi la misteriosa bestia: perché, ovviamente, anche se guardo oltre la strada nel posto indicato da Laloo, non vedo nulla. “E’alto circa un metro, è verde e danza nelle piazze dei villaggi”. Convinta di essermi giocata l’unica possibilità che avevo di vedere chissà quale stravagante animale esotico, decido che è ora di proseguire il viaggio. Quando, tornata in albergo, scopro che il misterioso essere di colore verde è soltanto un pavone, comincio a ridere da sola. E mi viene in mente che il misterioso peacock è una perfetta metafora di Ayodhya. La descrizione di una cosa non corrisponde assolutamente, nella fantasia di chi ascolta, alla cosa descritta. La città di Rama non è assolutamente il luogo tetro e violento che si sarebbe portati a credere. Anzi. Secondo la leggenda, Ayodhya è stata fondata dagli dei ed è prospera come il paradiso. E’ una delle sette città più sacre dell’India, un luogo in cui per secoli hanno convissuto induisti, buddisti, musulmani e jainisti ed è sacra, per motivi diversi, a ciascuna di queste fedi religiose. Ma, da dieci anni, evoca ormai soltanto immagini di violenza. Ayodhya, per quelli che ne ricordano il nome, è legata soltanto un sanguinoso e lontano episodio di cronaca: il 6 dicembre 1992, centinaia di integralisti induisti hanno raso al suolo la Babri Masjid, principale moschea della città costruita nel 1529 in onore di Babur, fondatore dell’impero Moghul, per costruire al suo posto un tempio dedicato al semidio Rama. Creando così una delle più sanguinose controversie della storia recente dell’India, che ha causato finora più di tremila morti e che è ancora ben lontana dall’essere risolta. Lo spettro degli scontri di nove anni fa aleggia ancora non soltanto su Ayodhya, ma su tutta l’India.

Tiwari, il proprietario dell’agenzia di viaggi di Varanasi, quando gli domando una macchina per andare ad Ayodhya, mi guarda esterrefatto. “Sei proprio sicura di volerci andare?”. Effettivamente, per un occidentale non c’è davvero nessun motivo per andare ad Ayodhya: i non induisti non sono ammessi nei templi, non c’è nulla di architettonicamente rilevante, nessun monumento di pregio da visitare. E la fama di città blindata tiene lontani anche i più curiosi. Se però ti chiami Ram Lal e sei un bambino induista, il nome di Ayodhya evoca molto, ma molto di più. Per tutti i devoti di Rama, difatti, Ayodhya è un luogo sacro e, come l’esotico peacock, incarna ai loro occhi un universo in cui mito e realtà storica si confondono fino a diventare indistinguibili. Per un induista, Rama incarna gli ideali dell’onore, del valore e del coraggio. E’ considerato il prototipo del figlio ideale, del marito modello, del fratello ideale, del perfetto discepolo, dell’amico che tutti vorremmo avere e anche del nemico corretto e cavalleresco. Ce n’è abbastanza per infiammare la fantasia di qualunque bambino e anche, purtroppo, quella di milioni di fanatici integralisti. E infatti, il viaggio nella città di Rama è un regalo di compleanno, il primo nella vita del piccolo Laloo. Quando sei l’ultimo figlio di una poverissima famiglia di Benares, i compleanni sono un lusso inutile. Così, invece che un oggetto, ho deciso di regalare al piccolo qualcosa di ancora più assurdamente lussuoso e di completamente inutile: dei ricordi da conservare, storie da raccontare. Un pellegrinaggio da signori nella città dedicata alla divinità di cui porta il nome. Il buon Tiwari cerca invano di farci desistere: le elezioni nello stato dell’Uttar Pradesh si sono appena concluse senza un vero vincitore, l’atmosfera è piuttosto tesa e, come se non bastasse, il partito integralista del Vishwa Hindu Parishad (Vhp) ha appena annunciato che confluiranno nella città circa 20.000 Ram sevak, devoti del dio Rama intenzionati ad attendere sul luogo la ‘fatidica’ data del 12 marzo. Che per i religiosi è la notte di Mahashivaratri, dedicata al dio Shiva. Per gli integralisti, è invece la data in cui si inizierà la costruzione del tempio di Rama. A qualunque costo. “Può essere molto pericoloso” ci avverte Tiwari “Lo scorso sei dicembre le autorità indiane hanno evitato per un soffio l’ennesimo probabile bagno di sangue mettendo praticamente la città sotto assedio per impedire agli integralisti induisti di celebrare una specie di ‘giorno della vittoria’ in occasione del nono anniversario della distruzione della moschea. E per impedire ai musulmani appartenenti alla Babri Masjid Action Committee (Bmac) di osservare un ‘black day’, una giornata di lutto cittadino, per lo stesso motivo. Sono stati inviati nella cittadina circa 1.200 soldati, è stata proibita la circolazione dei mezzi pesanti e sono stati rinforzati i posti di blocco. Misure simili sono state prese, nella stessa occasione, in altre città indiane ‘a rischio’: Hyderabad e Kanpur. Potrebbe succedere adesso la stessa cosa”. Ma la curiosità (mia) e la devozione (di Laloo) sono più forti di ogni rimostranza. Così, alle quattro di mattina, a bordo di una rappresentativa quanto scomoda Ambassador con relativo autista, io, Laloo e Sandhya, la sorella diciottenne del bambino, ci troviamo vestiti dei nostri abiti migliori e pronti ad andare. La famiglia dei ragazzi, riunita per vederci partire, impartisce le ultime raccomandazioni: “Fate attenzione ai bramini che cercano di leggervi la mano perché poi vi chiedono cento rupìe per scacciare la cattiva fortuna. Liberatevi subito dai giovani che si offrono di farvi da guida perché cercano di sfilarvi soldi per se stessi e per i templi. Non fatevi abbindolare dai santoni che chiedono donazioni”. Consiglio che si rivelerà in seguito utilissimo. Nella santa città esistono, difatti, ben 7001 templi. E, a partire dal 1992, in molti di questi si lavora ormai quasi esclusivamente per garantire l’assistenza ai pellegrini che si recano in visita al luogo in cui sorgerà il tempio di Rama e ai Ram sevak che organizzano periodiche dimostrazioni. Molti templi gestiscono dharamsala, ostelli più o meno gratuiti per pellegrini e santoni, e in alcuni si preparano pasti per più di mille persone al giorno. Ovvio che tutti cerchino di prelevare la maggior quantità di denaro possibile dalle tasche dei più ricchi, spremendo i devoti danarosi in cambio di illimitati benefici spirituali. Rama, signore della città, si è rivelato una inesauribile fonte di guadagno per tutti: bramini, commercianti, albergatori e guide turistiche. L’intrepido autista, invece, appena saliti in macchina, ci avverte: “Fate attenzione a quello che dite o fate, Ayodhya è un posto pericoloso”. Scrolliamo le spalle, e ci immergiamo nella contemplazione del paesaggio. Centoquaranta chilometri da coprire in cinque ore: una in più del previsto, perché le fermate fuori programma sono molte e delle più varie. Mucche, carri carichi di merci, i treni che passano…Laloo non ne ha mai visto uno, e corre come un dannato verso i binari ogni volta che ci fermiamo ad un passaggio a livello. Dopo un po’, i ragazzi cominciano a soffrire il mal di macchina e l’autista, che si è preso una clamorosa cotta per Sandhya, procede praticamente a passo d’uomo per non farla star male. Lungo la strada, cittadine e villaggi si mescolano in una confusione rumorosa, chiassosa e colorata. Procedendo verso Ayodhya, aumentano le donne musulmane velate e vestite di nero: una novità, fino a poco tempo fa era difficile vedere donne velate in Uttar Pradesh. Adesso, sono dappertutto. C’è perfino qualche burqà afghano, in giro. E poi, ci sono i pellegrini. Interi camion, macchine stipate, carri stracolmi, carovane a piedi. Pellegrini induisti che vanno a compiere il cosiddetto parikrama, un giro dei principali templi della città da fare seguendo un percorso circolare, e anche i primi sparuti drappelli di Ram sevak. Ci troviamo all’improvviso imbottigliati in un gigantesco ingorgo: la città è stata divisa in due distinti settori a cui si accede tramite posti di blocco. La confusione è totale. Oltrepassiamo il primo posto di blocco, e decidiamo di andare subito a vedere il famoso tempio di Rama, l’ex-Babri Masjid. Altro posto di blocco, e ci troviamo immersi in un’atmosfera irreale. Le stradine che percorriamo sono silenziose e semivuote, la confusione chiassosa e colorata che circonda in genere in India i luoghi sacri è scomparsa. Intorno, soltanto polizia e strutture in ferro che si intravedono tra la vegetazione. Tutta l’area oggetto della contesa è circondata da reti e filo spinato e piantonata ogni cinquanta metri da pattuglie armate. Cala il silenzio anche in macchina. Perfino Laloo smette di accendere ogni luce e spingere ogni pulsante dell’auto. L’autista ferma la grossa Ambassador, che in quello scenario risulta particolarmente fuori posto, in una piazzetta. Il tempo sembra curiosamente fermo. Più in là, il posto di blocco che segna l’ingresso al tempio oggetto della contesa. Al futuro tempio, per meglio dire, perché per il momento non c’è assolutamente nulla. Nulla tranne una specie di gigantesco percorso da gioco dell’oca, composto da una gabbia larga circa un metro e chiusa su tutti i lati. I devoti percorrono questa via obbligata oltrepassando altri tre posti di blocco interni all’area del tempio, con relative perquisizioni personali. Non sono ammesse macchine fotografiche, penne, accendini. Le donne poliziotto, dentro alle tende che riparano da sguardi indiscreti la perquisizione delle signore, lavorano a maglia golfini da neonato. A un certo punto un’apertura nella rete lascia spazio a un bramino circondato da guardie con il mitra spianato. Dieci metri più su, sotto una tenda bianca, un simulacro di Rama circondato di fiori e bastoncini di incenso troneggia malinconico e solitario. Un attimo per gettare un’occhiata e prendere dalle mani del bramino la manciata di riso soffiato che ci offre. Impossibile fermarsi, impossibile pregare, impossibile lasciare offerte. All’uscita, tiriamo tutti istintivamente un sospiro di sollievo. In silenzio, torniamo verso la macchina. “In questi giorni sono più severi, ma è sempre così” mi dice l’autista “la tensione è sempre nell’aria. Vi avevo detto che era pericoloso”. Forse è vero, cominciamo a pensare. E rimaniamo per strada, un po’ incerti sul da farsi. Mister Goyal, un distinto bramino di Delhi in compagnia della moglie, si avvicina. “Vi ho visti nel tempio” dice “Lei è straniera, vero?”. E’ un ingegnere in pensione, in città per il suo annuale pellegrinaggio. Chiacchierando, gli dico che il bambino, che è particolarmente religioso e ansioso di visitare la città, è rimasto un po’ spaventato da tutti i soldati presenti. “Non lasciatevi spaventare” sorride “Ad Ayodhya, come in tutta l’India, niente ha soltanto un volto, e niente è come appare. Da queste parti leggenda e cronaca si intrecciano instancabilmente in più punti. Anche la controversia tra musulmani e induisti, che risale a molti anni fa, ha origine da un preteso episodio ‘straordinario’”. Risale, ci spiega, al 22 settembre 1949, quando il simulacro di Rama che si trova adesso sotto la tenda, apparve misteriosamente all’interno della principale moschea di Ayodhya. La cosa aveva suscitato un grande scalpore, ed era stata interpretata dagli induisti come una specie di ‘reclamo’ da parte del semidio sul suolo del suo luogo di nascita. Le autorità religiose musulmane non erano, ovviamente, per nulla d’accordo. Ne era nata una disputa religioso-catastale, e di conseguenza le autorità civili avevano posto i sigilli alla moschea dichiarando il luogo “proprietà contesa”. Trentasette anni dopo, il primo febbraio 1986, gli induisti avevano finalmente ricevuto il permesso di svolgere le loro cerimonie sul luogo della discordia. In novembre, avevano però posato la prima pietra delle fondamenta di un tempio da erigere attorno al simulacro, richiamando contemporaneamente centinaia di volontari da tutta l’India che avrebbero lavorato alla costruzione. Nel frattempo, i musulmani avevano costituito la Babri Masjid Coordination Commettee per reclamare i loro diritti sul luogo sacro, affermando che il giudizio pendeva ancora innanzi alla Corte Suprema e che gli induisti non avevano alcun diritto di erigere il tempio. Nel 1992, la disputa era infine culminata con la distruzione della moschea e i relativi scontri. Più tutti i successivi strascichi politici che continuano a infiammare gli animi.

Decidiamo di seguire il consiglio di Goyal, e di proseguire la visita. E difatti il tempio successivo, Kanak Bhawan, ci sembra quasi un miraggio. Bancarelle, fiori e musica, bramini che leggono il futuro, venditrici di bambole e di braccialetti e polveri colorate. E’ bianco e immenso, e risale al secolo scorso. L’immancabile polizia è anche là, ma l’atmosfera è diversa. Le poliziotte sono gentili e sorridenti, visibilmente incuriosite e divertite da una straniera in sari con due ragazzini indiani. Mi accompagnano a fare fotografie in giro, anche se non si potrebbe, tempestandomi delle solite domande di tutte le donne: marito, figli, suocere…. Con questa scorta d’onore, diventiamo l’attrazione del tempio. Un vecchietto cencioso e un po’ matto ci insegue urlando finchè non scatto una foto anche a lui. Si mette devotamente in posa…e poi continua a urlare perché non vede il suo ritratto venire subito fuori dalla magica scatoletta. Ridiamo noi, ridono le poliziotte, ride anche il soldato col mitra che piantona l’ingresso. La tensione viene spazzata via di colpo, e da quel momento in poi la città cambia volto. Diventa soltanto un’antica, bellissima città pieno di un fascino particolarissimo, che va serenamente in rovina sulle sponde del fiume Saryu. Andando verso il centro della zona dei templi, aumenta la folla di pellegrini e turisti indiani. Musica, negozietti, barbieri improvvisati. Il tempio di Hanuman, il più famoso della città, è gigantesco e coloratissimo, circondato da una moltitudine di gente che si accalca per entrare. Qui, come in tutta la città, colpisce il contrasto stridente tra la ricchezza e la pulizia dei templi e l’abbandono fatiscente di tutto il resto. Dentro, anche la polizia ha l’aria rilassata e tranquilla e vigila esclusivamente sull’ordine di entrata. Più o meno, visto che è mezzogiorno e la mente è occupata più dal pensiero del pranzo che dalla gente che si spintona. In effetti, andando in giro lungo le rive del Saryu, sembra di aver soltanto sognato anche la tensione di qualche ora prima. Ci sono soldati anche là, ma i posti di blocco sono soltanto scenografici e la gente è cordiale e sorridente. Laloo corre a dar da mangiare ai pesci che si affollano sotto le arcate dei ponti. Una rupìa per una scatolina di palline di pane da buttare giù. Due pedalò celesti guidati fieramente da tronfi padri di famiglia interrompono per un attimo il gioco. Non ci sono macchine in giro, e un paio di vecchie motociclette arrugginite servono da trespolo a polli e scimmie. Le mucche vagano pacificamente rubacchiando qualche fiore e frugando tra i rifiuti. Il tramonto comincia a regalare riflessi incredibili alle vecchie costruzioni rosate. Qualche campanella comincia a suonare per l’aarti, la preghiera della sera. Ti aspetti di veder comparire Rama e Sita alla finestra dei vecchi palazzi, e cominci a capire, e a trovare realistico, come gli integralisti più arrabbiati abbiano cercato di impostare la causa pendente davanti alla Corte Suprema affermando che il suolo conteso appartiene a Rama e rivendicandolo in suo nome. Qui, sembra impossibile soltanto che qualcosa venga a turbare la millennaria pace del fiume che scorre, dei religiosi che pregano, dei bambini che giocano e delle famiglie che improvvisano estemporanei picnic nei praticelli. Incontriamo ancora la coppia di anziani coniugi Goyal, che ci riporta al presente: “Siete stati a vedere il plastico del nuovo tempio che dovrà sorgere intorno al simulacro del dio?”. Il prototipo è stato presentato al pubblico lo scorso anno, durante il Kumbh Mela di Allahabad. Quando il Dharmasansad, il consiglio delle maggiori autorità spirituali indiane, ha dichiarato che avrebbe atteso soltanto fino al 15 marzo il permesso ufficiale di costruire il tempio. Poi, sarebbe andato avanti comunque. Secondo le migliaia di santoni che in gennaio hanno marciato a piedi da Ayodhya a Delhi per ricordare al governo la loro determinazione, l’opera dovrebbe essere completata entro giugno. Alle varie componenti lavorano infatti da anni operai di varie zone dell’India, e le colonne, i mosaici e altri manufatti sono già stati trasportati in città. “Ma c’è davvero bisogno di un altro tempio?” domando a Goyal. “Non si tratta più” mi dice “soltanto del tempio. La questione non è religiosa, non è politica, non è economica. E’ tutte queste cose insieme e al tempo stesso le travalica. La ‘questione di Ayodhya’ è stata cavalcata, nel corso dei decenni, da tutti coloro in cerca di consensi elettorali. Ed è diventata uno dei più inestricabili pasticci giuridico-sociali della storia recente. In più, ormai, l’economia cittadina ruota attorno al tempio da costruire. Perciò…”. La mattina dopo, tornati a Benares, veniamo a sapere che in Gujarat è stato assaltato e incendiato un treno carico di Ram sevak, e che gli scontri, con relativi morti, hanno cominciato a divampare un po’ ovunque. Il governo sta cercando di bloccare i mezzi che portano ad Ayodhya, e ha inviato altri militari. Speriamo soltanto che gli dèi fondatori continuino la loro opera, e che Ayodhya non si perda come Brigadoon dentro al fumo delle armi.
Francesca Marino
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