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Taliban: colloqui a Doha
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Con un clamoroso giro di valzer, l'amministrazione Trump ha capovolto decenni di politiche americane in Afghanistan e ha acconsentito a una delle principali richieste dei Taliban: intavolare colloqui di pace (o presunti tali) direttamente con gli Stati Uniti senza che fossero presenti rappresentanti del governo afghano. Così, in gran segreto, lo scorso 23 luglio mentre i riflettori erano puntati sulle elezioni-farsa pakistane, a Doha si sono incontrati faccia a faccia Alice Wells, che è il capo del South Asia Bureau del Dipartimento di Stato americano e guidava una delegazione di sette membri dell'amministrazione Trump, e quattro rappresentanti dei Taliban. A quanto pare, ma si tratta di voci non del tutto confermate, ci sarebbero stati altri incontri sia in Afghanistan che negli Emirati Arabi. Washington ha confermato la presenza della Wells a Doha, ma non ha dato alcuna conferma ufficiale dell'incontro. Che pure è stato commentato a mezzo stampa sia dai Taliban che dal Segretario della Difesa americano John Mattis, secondo il quale: “Il pilastro principale delle nuove politiche dell'amministrazione Trump è proprio dare l'avvio a un processo di riconciliazione nazionale” in Afghanistan. Secondo Mattis, i rappresentanti degli Usa hanno lavorato e lavorano a stretto contatto con il governo di Kabul perchè, e nelle intenzioni questo non dovrebbe essere cambiato, il processo di pace dovrebbe comunque essere “guidato e diretto dagli afghani”. Secondo i Taliban si è trattato di un primo incontro molto positivo, che sarà seguito da ulteriori meeting focalizzati su tematiche più specifiche. A quanto pare in settembre, se nel frattempo le cose non cambiano. Quest'ultimo sviluppo della ormai tragica situazione afghana mostra difatti in modo sempre più evidente la disperazione degli americani e la forza dei Taliban che militarmente minacciano ormai, checchè ne dica Washington, più o meno il settanta per cento del paese. L'ufficio di Doha era stato aperto, con grande fanfara, nel 2013: ai tempi i colloqui erano falliti praticamente da subito perchè il giorno dell'apertura, all'ingresso di quella che era stata considerata una vera e propria ambasciata dei Taliban, sventolava la bandiera di un fantomatico stato islamico dell'Afghanistan e non la bandiera nazionale afghana. Nel 2015 pakistani e cinesi hanno provato a riportare tutti al tavolo delle trattative, in due tornate di incontri a Murree, in Pakistan, ma hanno fallito miseramente. I Taliban mantengono sempre il loro punto: non riconoscono autorità alcuna al governo che siede a Kabul, e vogliono trattare con gli unici che hanno la possibilità reale di ritirare le truppe dal paese di smetterla di intromettersi nel processo politico afghano: gli americani. Finalmente, hanno ottenuto da Trump ciò che gli era stato negato da tutte le precedenti amministrazioni. Il bravo Donald, che ambisce al Nobel per la pace, come si è visto tratta la politica internazionale a modo suo: e mentre nel 2017 dichiarava che l'obiettivo principale in Afghanistan era “la vittoria” da ottenere possibilmente sul campo inviando più truppe e incrementando i bombardamenti a supporto delle azioni dell'esercito afghano, un anno dopo si rendeva probabilmente conto di essersi ficcato nell'ennesimo vicolo cieco. Come hanno più volte dichiarato i Taliban: “voi avete le armi, ma noi dalla nostra abbiamo il tempo”. Gli anni passano, e la guerra afghana diventa più impopolare del famoso Vietnam. I Taliban hanno di fatto già vinto, portando gli americani a sedere al tavolo delle trattative praticamente senza condizioni. Al cessate il fuoco rispettato per tre giorni sia dai Taliban che dagli afghani sono seguite immediatamente azioni militari e attacchi suicidi di particolare violenza. Ai colloqui di Doha è seguito l'assedio di Ghazni, durato più di tre giorni. Secondo le Nazioni Unite, il numero di civili uccisi quest'anno in Afghanistan ha raggiunto uno storico record. Il riconoscimento politico implicitamente ottenuto a Doha, nonostante la Casa Bianca abbia decisamente negato che di riconoscimento politico si tratti, ha proiettato sulla scena internazionale i Taliban come parte legittima del cosiddetto 'processo di riconciliazione nazionale' cancellando di fatto l'etichetta di 'terroristi' che ha per anni giustificato l'occupazione militare dell'Afghanistan. E, secondo il generale Votel a capo del Comando Centrale delle operazioni Usa, i Taliban sono diversi da tutti gli altri gruppi terroristici. Se ne fossero accorti prima, non si troverebbero in questa situazione. Invece, sempre secondo Votel: “Mentre sui Taliban facciamo pressione militarmente per costringerli a sedere al tavolo delle trattative, non nutriamo alcuna speranza di poter trattare con lo Stato Islamico e altri gruppi simili”. Come dire: riportiamo, dopo diciassette anni di guerra, i Taliban al governo e la situazione esattamente com'era quando siamo arrivati. Intanto, abbiamo sempre da parte un nuovo nemico, sempre in qualche modo generato dalle guerre insensate combattute per nulla, che darà lavoro ai militari per un'altra manciata di anni. La strategia Kissinger è sempre valida e tiene nonostante gli anni che passano e le situazioni che cambiano: dichiarare vittoria e affrettarsi a scappare. Trump vuole dichiarare vittoria, in qualunque modo: e se per farlo deve acconsentire a ogni richiesta dei Taliban, tento peggio. Nelle sua famosa 'nuova strategia' ha chiaramente detto che la ricostruzione e l'equilibrio dell'Afghanistan non sono affar suo.
Francesca Marino
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