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One Belt, One Road, many problems
  • One Belt, One Road
    One Belt, One Road
Doveva essere un trionfo politico-diplomatico per la Cina, che asseriva così la sua aspirazione a sostituire gli Stati Uniti nella leadership globale, ma lo è stato solo a metà. Il forum che si è svolto a Beijing sul molto discusso progetto One Belt, One Road (Obor) che mira a rinnovare i fasti dell'antica Via della Seta e a connettere la Cina (e le imprese cinesi) al resto del mondo ma soprattutto all'Europa, si difatti fatto notare più per le polemiche che lo hanno accompagnato che per i risultati ottenuti. Nonostante difatti sia i cinesi che il premier pakistano Nawaz Sharif si siano affannati ad affermare che “la geo-economia deve sostituire la geopolitica” e che il progetto, una volta ultimato, porterà sviluppo, pace e bene (seguendo la roboante retorica cinese) a tutte le popolazioni coinvolte, i dubbi permangono e non sono pochi. Il One Belt – One Road è essenzialmente un progetto di connettività globale. Una volta terminato dovrebbe includere sessantotto paesi, il cinquantacinque per cento del Prodotto Interno Lordo globale e il settantacinque per cento delle riserve energetiche mondiali. Consiste di circa novecento progetti di sviluppo di infrastrutture, per un investimento stimato di 1,3 trilioni di dollari. La nuova Via della Seta immaginata da Pechino dovrebbe comprendere sviluppare una rete di autostrade, ferrovie, oleodotti e gasdotti e altri centri di produzione di energia e comprende una rete connettiva terrestre e una marittima. Il punto di partenza via terra sarebbe, come un nell'antica Via della Seta, la città cinese di Xian. Da lì dovrebbero partire due diverse Vie destinate a convergere a Mosca e da Mosca a raggiungere poi città e porti europei. La prima Via dovrebbe attraversare la Cina e il Khazakistan per poi giungere a Mosca, mentre la seconda raggiungerebbe la capitale russa passando per la Mongolia e il sud della Russia: questa rotta. Attraverso un corridoio secondario, attraverserebbe l'Iran e la Turchia per poi finire a Budapest. La Via marittima dovrebbe connettere idealmente i porti della Cina orientale con i maggiori porti dell'Est, del Sudest asiatico e dell'Africa orientale, dell'Asia occidentale e raggiungere quindi il Mediterraneo, passando per Istanbul, per la Grecia e per Venezia, per andare a finire nei porti di Rotterdam e di Amburgo. Sul progetto sono in corso, per motivi abbastanza ovvi, discussioni infinite sia in Cina che fuori. L'antica Via della Seta era stata uno strumento essenziale per la colonizzazione dell'Asia da parte dell'Occidente: e non sono pochi quelli che vedono nel OROB uno strumento colonizzatore. Non sono pochi nemmeno coloro che temono le mire espansionistiche cinesi e un tentativo di “dominazione globale” da parte di Pechino. Così il resto del mondo, pur dimostrandosi interessato, è stato abbastanza cauto per ciò che riguarda la partecipazione al Forum. L'unico capo di Stato presente, per ciò che riguarda i paesi del G7, era il premier italiano Gentiloni. Tutti gli altri paesi hanno inviato delegazioni di profilo più o meno alto, inclusi, ed è stata una decisione dell'ultimo minuto, gli Stati Uniti e il Giappone che hanno nei confronti del progetto pesanti riserve. La politica cinese, aggressivamente espansionistica nel mare del sud della Cina, ha accusato e causa non poche frizioni diplomatiche tra Beijing e i paesi coinvolti: a cominciare, appunto, da Usa e Giappone. La decisione dell'amministrazione Trump, di inviare all'ultimo momento una delegazione dopo aver dichiarato che gli Stati Uniti non avrebbero partecipato al vertice, è stata letta come una conversione a U, l'ennesima, dell'ineffabile Donald nei confronti di Pechino. Dovuta probabilmente non a un ripensamento strategico ma semplicemente al fatto che, come molti dimenticano, la Cina praticamente ha in mano grossa parte del debito pubblico americano e che Washington non si può proprio permettere di snobbare apertamente i cinesi affiancando perdipiù clamorosamente l'India nel braccio di ferro a distanza tra le due superpotenze asiatiche. L'India è stata difatti il classico convitato di pietra del Forum: non ha partecipato al vertice con nessuna delegazione ufficiale. Una manciata di studiosi indiani si trovava là, ma in veste strettamente privata. Per il momento difatti, l'unica parte operativa del One Belt One Road è il cosiddetto CPEC, il China-Pakistan Economic Corridor che connette la regione cinese dello Xing-Jiang a Gwadar, in Balochistan. Il corridoio, realizzato senza consultazioni preliminari con New Delhi, attraversa regioni, come il Gilgit-Baltisan e il Kashmir pakistano, che l'India ritiene parte integrante del proprio territorio e che sono soggetto di infinite dispute (e di una manciata di guerre) tra India e Pakistan. Così, l'India ha deciso di non partecipare al Forum mandando a dire a mezzo stampa che non intende avallare alcun progetto che violi la sovranità territoriale degli Stati coinvolti e avanzando accuse nemmeno tanto velate di neocolonialismo e non solo: “Crediamo fermamente che tutte le iniziative di connettività debbano essere basate su principi universalmente riconosciuti di buon governo, rispetto della legge, trasparenza, uguaglianza e apertura” ha dichiarato New Delhi “E che ogni singolo progetto debba essere programmato in modo da rispettare la sovranità e l'integrità territoriale dei singoli Stati”. D'altra parte, gli indiani non sono i soli a invocare maggiore trasparenza e il rispetto delle regole: soprattutto delle regole internazionalmente accettate in materia di ambiente e sicurezza dei lavoratori. Altra nota dolente, sono gli investimenti richiesti ai singoli Stati e il livello di indebitamento (e di dipendenza dalla Cina, ovviamente) che ciò comporterebbe. Non solo: a 'proteggere' i lavoratori cinesi che lavorano a Gwadar sono state inviate truppe di Beijing. E se il Pakistan fa buon viso a cattivo gioco, non sono molti gli Stati a vedere di buon occhio una presenza militare di Beijing sul loro territorio. L'occidente è ovviamente interessato ma decisamente cauto: l'Unione Europea si è rifiutata di avallare un a parte molto consistente dell'Obor perchè non include alcun impegno, nemmeno un riferimento teorico, alla trasparenza e al rispetto della sostenibilità ambientale e sociale. E sulla mentalità di Beijing dovrebbe dire qualcosa la sorpresa manifestata dai dignitari cinesi di fronte alla compatta unanimità dei paesi UE. Il fatto è che Beijing gioca, come al solito, una partita a carte coperte: dichiarando di voler avviare una nuova era di prosperità e connettività globale, sostenendo che il mondo ha bisogno di cestinare il protezionismo e abbracciare la globalizzazione, parlando di “aggiungere splendore alla civiltà umana”. Tutto di fronte a due delle star del Forum, Vladimir Putin e Erdogan, noti campioni di civiltà, democrazia, trasparenza e rispetto dei diritti umani. Alle accuse, avanzate da più parti, di voler sfruttare selvaggiamente risorse sostenendo al tempo stesso regimi autoritari, Beijing risponde respingendo sdegnata le accuse di neocolonialismo, sostenendo che la Cina semmai del colonialismo è stata vittima e non protagonista e accusando i critici di voler continuare a giocare a vecchi giochi geopolitici e di potere. In sostanza, come sostengono molti analisti, i cinesi stanno vendendo fumo e cercando di passare per ingenui sognatori: la realtà è che, guarda caso, molti dei tratti dell'Obor passano per aree geopoliticamente strategiche e costituirebbero, se costruite, formidabili assetti politico-militari per Beijing. La realtà è che l'economia cinese ha disperato bisogno di nuovi sbocchi, che la Cina cerca di cogliere l'occasione, vista la crisi endemica dell'Occidente di affermarsi come nuova potenza globale e che i segni di questo nuovo corso politico sono già evidenti da un pezzo: l'aggressività (anche militare) nel China South Sea, lo stesso CPEC, il modo in cui cittadini e risorse sono stati sfruttati e gestiti a Gwadar e dintorni non costituiscono certo un buon precedente e questo lo capiscono tutti. Per il momento, una cosa soltanto è certa: che i giocatori sul tavolo sono moltissimi, la posta non è mai stata così alta e le variabili così disparate. Dalle rotte asiatiche dipenderà gran parte della geopolitica del futuro e del controllo delle strategie globali.
Francesca Marino
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