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TILLERSON IN SOUTH ASIA
  • Prime Minister Narendra Modi with US Secretary of State Rex Tillerson
    Prime Minister Narendra Modi with US Secretary of State Rex Tillerson
“Gli americani dovrebbero accettare la sconfitta, ammettere il fallimento in Afghanistan, e ripartire da qui per trovare una soluzione”. Così parlò il ministro degli Esteri pakistano Khawaja Asif immediatamente dopo l'incontro, un breve incontro, con il Segretario di Stato americano Rex Tillerson. Tillerson, il primo membro dell'amministrazione Trump a recarsi ufficialmente nella Terra dei Puri, si è fermato in Pakistan per sole quattro ore prima di procedere verso Delhi. E la visita non è stata delle più tranquille. A riceverlo all'aeroporto nessuna delegazione in pompa magna ma solo funzionari di rango medio-basso, a voler sottolineare l'aria che tira a Islamabad e dintorni. I pakistani sono furibondi, a voler essere minimalisti: giorni fa lo stesso Tillerson aveva pubblicamente incensato l'India reiterando la richiesta americana di un maggior coinvolgimento indiano in Afghanistan e sottolineando ancora una volta come New Delhi sia un “partner naturale” per gli interessi degli Stati Uniti nella regione. E poco prima di recarsi a Islamabad il Segretario di Stato aveva dichiarato, nel corso di un incontro a Bagram con i vertici del governo afghano, che “Gli Stati Uniti hanno inoltrato al Pakistan richieste molto specifiche” perchè la smettano di proteggere i Taliban e tutta la galassia di jihadi che si aggira libera per il paese sotto la protettiva ala dell'esercito e dei servizi segreti. Donald Trump e i suoi, da quando sono state annunciate le nuove linee guida per l'Afghanistan e il South Asia, non adoperano eufemismi. Secondo C. Christine Fair, rispettata analista e docente alla Georgetown University e peraltro decisamente contraria a Donald Trump, “Il Pakistan rappresenta per gli Stati Uniti un pericolo ancora maggiore dell'Iran: è stato il Pakistan a fornire materiale nucleare alla Libia e alla Corea del Nord, e i pakistani hanno ammazzato molti più soldati americani di quanto non abbiano fatto gli iraniani”. Pochi giorni prima del viaggio di Tillerson gli Usa hanno bombardato in lungo e in largo il confine tra Afghanistan e Pakistan, con diverse incursioni in territorio pakistano. In realtà, in tutta questa guerra di parole tra Washington e Islamabad, non c'è nulla di sostanzialmente nuovo: non è la prima volta che i due paesi sono vocalmente ai ferri corti, le violazioni della sovranità territoriale pakistana sono da anni all'ordine del giorno, dei terroristi creati, allevati e cresciuti dal Pakistan, Taliban e Haqqani per cominciare, sono piene le cronache. La 'nuova' strategia di Trump per l'Afghanistan, a ben guardare, non è poi tanto nuova: a meno che dalle parole e dalle minacce non si passi ai fatti. E qui la questione si complica, e di molto. Perchè gli americani, e questo Islamabad lo sa perfettamente, del Pakistan hanno bisogno: hanno bisogno anzitutto dell'accesso via terra all'Afghanistan, e l'unico è dal porto di Karachi attraverso il territorio pakistano. Hanno bisogno della collaborazione di Islamabad con i Taliban: perchè le truppe sul campo possono forse vincere una battaglia, ma non riescono poi a tenere il territorio conquistato o a prendere i jihadi, che in genere si rifugiano in Pakistan. E hanno bisogno di avere in mano un qualunque mezzo, economico o militari, che gli assicuri un qualche tipo di controllo sul nucleare pakistano: perchè se la potenziale 'Bomba Islamica' iraniana fa paura, la Bomba pakistana è reale e nessuno vuole che finisca tra le mani di integralisti e jihadi di ritorno. Così, per il momento, si continua a giocare al vecchio gioco del bastone e la carota: e il Dipartimento di Stato americano ha ufficialmente dichiarato che non ci saranno sanzioni automatiche se il Pakistan continua a rifiutare di ammettere l'esistenza sul suo territorio di paradisi per jihadi e di fare pulizia. In realtà, qualche giorno prima, l'ineffabile General Maggiore dell'Isi Asif Ghafoor aveva dichiarato, durante una conferenza stampa, parlando delle accuse di legami con i jihadi mosse da più parti all'esercito e all'Isi che: “Avere legami è diverso dal sostenere. (..) I legami possono essere positivi” ammettendo implicitamente il fattaccio. Secondo molti membri dell'amministrazione Trump, la soluzione è abbastanza semplice: basta chiudere i rubinetti del costante flusso di denaro che da anni scorre da Washington verso Islamabad per costringere i pakistani a smettere di sostenere Taliban e compagni. Perchè se è vero che il Pakistan gode dell'appoggio cinese, è vero anche che dipende ancora in modo sostanziale dal denaro ( e dalle armi) americano. Meno semplice è invece dosare la pressione e le modalità della suddetta ipotetica chiusura. Per il momento, continua la guerra dei nervi. Tillerson si è fermato a Delhi, dove è arrivato anche Ghani e dove sono stati reiterati i soliti impegni a combattere il terrorismo. Ma la strategia Usa di rilancio dell'India come potenza globale alternativa alla Cina e come partner regionale privilegiato potrebbe in questo caso rivelarsi un vero e proprio boomerang. Soprattutto se Washington continuerà a operare in Afghanistan come ha fatto fino a questo momento, inviando truppe e denaro senza una concreta strategia.
Francesca Marino
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