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Pakistan: il fantasma della libertà di stampa
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“E' stata presentata a Quetta una denuncia a mio carico per attività contro lo Stato. La ragione è che sono stato a Ginevra per incontrare rappresentanti delle Nazioni Unite che lavorano sulla scomparsa di migliaia di persone. Ho consegnato una lista delle persone scomparse in Balochistan e ho informato le Nazioni Unite delle violazioni dei diritti umani compiute quotidianamente nella regione da segmenti dello Stato pakistano”. A parlare così è Mama Qadeer Baloch, un piccolo grande uomo di settantasei anni che nel 2014, assieme ad altri cittadini balochi, ha camminato per circa duemilacinquecento chilometri, da Quetta a Islamabad attraverso tutto il Pakistan, per denunciare la scomparsa di migliaia di persone a opera dei servizi segreti e delle forze armate pakistane. Prelevate da casa, dalla strada o dal lavoro e mai più tornate. La denuncia per attività contro lo Stato, parente stretta dell'accusa di tradimento, è ormai diventata un classico dell’intimidazione. Non soltanto per gli attivisti, almeno per quelli più in vista che è difficile fare sparire nel nulla, ma anche e soprattutto per i giornalisti. L'ultimo in ordine di tempo è stato Cyril Almeida, una delle firme più prestigiose del quotidiano The Dawn. Il suo nome è stato messo sulla 'no fly list', la lista dei cittadini a cui è vietato lasciare il paese, ed è coinvolto per 'attività contro lo Stato' in una causa contro l'ex-premier Nawaz Sharif. Almeida è colpevole di avere intervistato Sharif e riportato fedelmente le sue parole: al momento è libero su cauzione. The Dawn, quotidiano fondato dal padre della patria Ali Jinnah, nel periodo elettorale spariva letteralmente nel tragitto dalla tipografia alle edicole. A essere intimidita con accuse di attività contro lo Stato e con tentativi di farla apparire al soldo degli indiani è stata anche la giornalista e blogger Gul Bukhari, prelevata qualche mese fa dai soliti loschi figuri e rilasciata dopo qualche ora. A causa di una vera e propria campagna mediatica volta a farla apparire al soldo dell'India, la docente universitaria e analista militare Ayesha Siddiqa è stata costretta a lasciare il paese. Così come Taha Siddiqi, altra firma di The Dawn, sfuggito a stento a un tentativo di rapimento. La lista dei giornalisti rimasti vittima di attentati e costretti a emigrare o a vivere sotto scorta è lunga e spazia da nomi prestigiosi come quelli di Raza Rumi o Hamid Mir a decine di giornalisti locali meno famosi ma altrettanto coraggiosi. La lista di coloro che sono rimasti e che non riescono più a fare il proprio lavoro è ancora più lunga. Così come la lista di coloro che si sono quietamente dimessi da direttore o caporedattore e si sono dati all'insegnamento o scrivono ormai soltanto di temi 'neutri'. Secondo l'ultimo rapporto della Commission for Protection of Journalists, difatti, la situazione della stampa e dei media in Pakistan è ormai più che allarmante e si manifesta in modi sempre più insidiosi e difficili da combattere. Il numero dei giornalisti uccisi, rispetto agli ultimi anni drasticamente calato, è vero, ma non è una notizia buona quanto sembra. Perchè lo Stato adopera altri sistemi, meno vistosi, per intimidire i rappresentanti della stampa e dei media. In un certo senso, seguendo la stessa strategia adoperata per gestire il potere politico: democrazia apparente, controllata a stretto giro dai militari. L'elezione di Imran Khan, telecomandato dai generali, e il fantasma della libertà di espressione sono due facce della stessa medaglia. La manipolazione dei media, durante la campagna elettorale, ha raggiunto vette eccelse, che facevano il paio soltanto con liste elettorali e voti truccati. “Penso che il numero dei giornalisti uccisi sia diminuito perchè è diminuita, rispetto a cinque-sei anni fa, la resistenza dei media” sostiene il fondatore di Media Matters for Democracy Asad Baig “E questo perchè è stato instaurato sui media in questione un controllo capillare. Che impone chiaramente le cose che si possono o non si possono dire e quali sono i confini da non superare. Non soltanto per i giornalisti, ma anche per gli editori”. La spada di Damocle che pende sempre più sinistra sulle teste di giornalisti ed editori è l'accusa di blasfemia o per l'appunto, quella di attività contro lo Stato. Accuse che possono portare dritti in galera per anni e anni o, addirittura, alla condanna a morte. Così, sempre secondo il rapporto della Cpj, un buon settanta per cento dei giornalisti ormai si autocensura perchè si sente più 'al sicuro'. Nei mesi scorsi avvenimenti di grande rilevanza come le proteste dei Pashtun sono stati a malapena riportate da giornali e televisioni nazionali. Parlare di Balochistan, a meno che non si tratti di riportare veline passate dai militari o di lodare i progressi del China Pakistan Economic Corridor, è fuori discussione. D'altra parte la regione è sigillata, e l'accesso è negato sia ai giornalisti che ai membri delle Commissioni delle Nazioni Unite. Ma il controllo di militari e servizi segreti sull'informazione è ormai sempre più stringente e riguarda tutto il paese: quando non bastano intimidazioni e minacce, si interviene alla radice. I canali televisivi vengono oscurati, le frequenze cambiate di continuo. I giornalisti che continuano a esercitare una parvenza di spirito critico o che si ostinano a raccontare ciò che accade, subiscono strane irruzioni dentro casa, come l'analista militare Marvi Sirmed a cui sono stati rubati soltanto computer e hard disk. Oppure, vedono le loro collaborazioni a quotidiani e settimanali interrotte: è successo a Mir Mohammed Ali Talpur, rispettato opinionista ed eroe della lotta in Balochistan, e più di recente a Mosharaf Zaidi e a Babar Sattar del quotidiano The News. Giornalisti e corrispondenti stranieri, se vogliono rimanere nel paese, sono costretti ad adeguarsi pena l'espulsione o peggio. La democrazia in Pakistan, come ben sanno i cittadini, può essere cento volte peggio della dittatura. Forse dovremmo cominciare a rifletterci.
Francesca Marino
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