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2020, Fuga da Hong Kong
  • Hong Kong protest
    Hong Kong protest
A cinque mesi dall’ inizio delle proteste la situazione ad Hong Kong non accenna a calmarsi. In questo periodo e’ cresciuto notevolmente il numero dei cittadini dell’ ex-colonia britannica che considerano la possibilita’ di”votare coi i piedi”, vale a dire di abbandonare il territorio e stabilirsi all’ estero. Nel periodo da maggio ad agosto, per esempio, le domande di cttadini di Hong Kong che chiedono di stabilirsi a Taiwan e’ cresciuto del 50 per cento, secondo dati del governo di Taipei. Altre mete preferite dagli hongkonghesi che progettano di fuggire sono il Canada, gli USA e Singapore - che pero’ sta perdendo terrenno perche’ e’ governata da una dittatura “amica” di Pechino. Le stime variano, i dati sono ancora incompleti, ma tra gli agenti di viaggio del territorio circolano stime che parlano di un aumento dell’ emigrazione de 2-300 per cento, di un terzo della popolazione, ecc.

Dopo un primo periodo di impressionanti manifestazioni di massa - con milioni di persone in piazza (Hong Kong ha circa 7,5 milioni di abitanti) le proteste sono piu’ piccole, spesso si svolgono in quartieri periferici. Il nuovo trend si deve sia alla fisiologica stanchezza del movimento che alla spietata repressione del regime cinese. Pechino infatti non esita ad usare lo squadrismo e i pestaggi mirati contro leader della protesta, oltre alla polizia che ha gia’ arrestato oltre duemila persone.. Le “squadre” che prendono a bastonate o addirittura a martellate i rivoltosi sono composte in alcuni casi dai “soldati” delle locali Triadi (le organizzazioni mafiose cinesi che nel secolo scorso si sono allineate al regime comunista dopo aver in precedenza agito come braccio armato dei nazionalisti, in particolare a Shanghai) o da elementi malavitosi reclutati nella “mainland”. Allo stesso tempo il governo mantiene la sua linea dura, che si esprime soprattutto nelle ripetute violenze della polizia. In molti dei video che vengono diffusi in questo periodo gli agenti spesso usano una violenza sproporzionata alle provocazioni dei manifestanti e spesso appaiono invasati, probabilmente imbottiti di droghe eccittanti. Allo stesso tempo, si sono moltiplicati gli atti di vandalismo gratuito da parte di centinaia di giovani manifestanti che distruggono negozi e a volte attaccano la polizia.

Nonostante la repressione, sia giudiziaria che di tipo squadristico, le proteste continuano e sono quotidiane,. Insomma, siamo allo stallo: entrambi gli schieramenti sembrano procedere per forza d’ inierzia, piu’ che per un calcolo politico.

Alcune dichiarazioni di dirigenti e articoli sulla stampa di regime indicano che Pechino sta cercando di giocare la carta del “populismo”, mettendo in risalto gli aspetti sociali della rivolta. Tra le righe, la tesi e’ che le proteste non siano in realta’ per la democrazia e la possibiita’ di decidere del proprio futuro contro un regime totalitario ma che siano innescate dalle disparita’ sociali e siano dirette contro le poche famiglie di tycoon che dominano l’ ex-colonia imponendo i prezzi di una casa per metro quadrato piu’ alti del mondo (oltre 20mila euro a metro quadro su Hong Kong Island). Naturalmente, la stampa di regime si guarda bene dall’ aggiungere che quelle famiglie sono le grandi alleate di Pechino nel territorio, quelle che impiegano parenti e clienti dei leader comunisti e permettono loro di investire discretamente le loro ricchezze illegali; quelle, in poche parole, che gestiscono i rapporti finanziari tra la nomenclatura e il resto del mondo.

Si tratta di un’ interpretazione che nasce da un misto di malafede e di reale incomprensione della societa’ hongkonghese.

Nella mainland, la Repubblica Popolare Cinese, la societa’ civile ha accettato, almeno in larga parte, lo scambio proposto dal Partito Comunista: la rinuncia alle proprie liberta’ - delle quali del resto raramente hanno goduto in passato - in cambio di un’ economia in continua crescita. Il patto scellerato, che ha le sue radici nella tragedia della Rivoluzione Culturale, che alla fine degli anni sessanta porto’ milioni di persone sull’ orlo della morte per fame., comincia a mostrare la corda anche nella RPC e pensare di poterlo proporre ad Hong Kong, vissuta per un secolo (quattro generazioni!) sotto un regime coloniale che pero’ ha sempre garantito le liberta’ fondamentali - di associazione, di informazione, ecc. e’ assurdo. La stampa del regime ha sollevato negli ultimi giorni la possibilita’ che venga sostituita la capa del governo Carrie Lam. Servirebbe a poco, lasciando da parte il fatto che oggi la poltrona di “Chief Executive” (come viene capo il leader del governo locale) scotta e non sarebbe facile trovare un kamikaze disposto ad occuparla.

Il movimento di protesta tiene duro sulle sue cinque richieste delle quali finora solo una - il ritiro formale della proposta di legge per introdurre la possibilita’ di estradare i “criminali” nella RPC - e’ stata accettata. Le altre sono: l’ istituzione di una commissione d’ inchiesta sulle violenze poliziesche; il ritiro della definizione di “rioters” che il governo ha appioppato ai manifestanti; l; amnistia per tutte le persone arrestate in questo periodo; il suffraggio universale sia per l’ elezione del Parlamento (chiamato Legislative Council o LegCo) che del Chief Executive I 70 membri del LegCo vengono ora eletti solo parzialmente con il voto popolare mentre gli altri sono scelti dalle “functional costituencies”, vale a dire delle corporazioni in genere controllate dagli alleati di Pechino. Il “Chief Executive” viene invece nominato da un colleggio elettorale, anch’ esso controllato dal Partito Comunista Cinese.

Ricordiamo che la “Basic Law”, la Costituzione che ha introdotto il concetto chiamato “un Paese, due sistemi” (quello autoritario in Cina, quello democratico ad Hong Kong) prevede che il territorio si muova verso una “completa” democrazia. L’ ultima e quella piu’ apparentemente sovversiva delle richieste, dunque, non e’ altro che una richiesta dell’ applicazione della Costituzione, approvata da Pechino al momento del passaggio dei poteri dall’ amministrazione coloniale britannica al governo cinese. Le possibilita’ che Pechino ceda su queste richiesta - anche sull’ ultima, quella dell’ istituzione nel territorio di una piena democrazia, che gia’ ha accettato di fatto sottoscrivendo nel 1997 la Basic Law - sono minime. Apparentemente, il segretario del Partito Comunista e presidente della Repubblica Xi Jinping ha eliminato tutti gli oppositori e ha stabilito un fermo controllo sul Partito, tanto da venir erroneamente indicato da molti osservatori superficiali come il leader cinese”piu’ forte dopo Mao Zedong”, il vincitore della guerra civile contro i nazionalisti e fondatore della RPC. In realta’, il “leader piu’ forte dopo Mao” e’ stato Deng Xiaoping, succeduto allo stesso Mao dopo una feroce lotta di potere con i suoi avversari.

Con l’ economia in continuo rallentamento, la guerra commerciale con gli USA, i fallimenti della propaganda di Pechino sul piano internazionale, la posizione di Xi non e’ sicurissima, e non sembra che nuove concessioni - d siano probabili. Una situazione che spingera’ sempre piu’ hongkonghesi a trasferirsi all’ estero e in particolare a Taiwan, probabile teatro in futuro di uno scontro tra cinesi democratici e regime comunista. Solo un grosso e probabilmente traumatico cambiamento a Pechino potrebbe fermare questa tendenza.
Beniamino Natale
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