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Kabul. L’inspiegabile fretta di Biden
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Mentre scrivo queste righe i Taliban sono vicini a Kabul e la capitale cadrà nelle loro mani tra qualche ora, o forse tra qualche giorno. Si parla molto di un’ “offensiva” della milizia islamica ma stando alle notizie importanti città come Mazar-i-Sharif (nel nord, territorio della minoranza etnica uzbeka) e Jalabad (vicino al confine col Pakistan) sono cadute senza combattere. I cosiddetti soldati del cosiddetto “esercito afghano” si sono arresi senza sparare un colpo. 

In Afghanistan, e in gran parte dell’Asia, si combatte per la famiglia, per la tribù, per l’etnia. Cosa avrebbero dovuto difendere i soldati dell’“esercito afghano”? Un gruppo dirigente fatto di signorotti locali corrotti e dediti a traffici in gran parte illegali e al nepotismo più sfacciato? 

Facciamo un rapido riassunto della storia dell’Afghanistan negli ultimi decenni. 

Nel 1973, il re Mohammad Zahir Shah, della dinastia dei Barakzai, di etnia pashtun, è deposto con un colpo di stato da un suo cugino di nome Mohammad Daud Khan, mentre si trova in Italia per visite mediche.

Zahir – morto nel 2007 – era un re illuminato. Ha cercato di modernizzare gradualmente il paese, aprendolo al turismo internazionale e introducendo delle riforme, per esempio permettendo alle donne di studiare e lavorare. Questi esperimenti avvenivano nella capitale, Kabul, o in altre città, e a questi rimandano le foto di ragazze in gonna e camicetta diffuse spesso in questi giorni. Dopo pochi anni, Daud fu deposto e ucciso da una rivolta dei militari comunisti che poi cominciarono a spararsi l’uno con l’altro fino all’intervento diretto dell’Unione Sovietica, madrina delle varie “rivoluzioni”, quella repubblicana di Daud e quella comunista di Nur Mohammed Taraki e di Babrak Karmal. 

I militari sovietici vengono combattuti, e alla fine sconfitti, da una rivolta popolare ispirata dalla religione islamica. I mujaheddin che si battono contro i sovietici sono in larga parte pashtun, l’etnia maggioritaria in Afghanistan e largamente presente anche in Pakistan, ma anche le minoranze etniche fanno la loro parte, in particolare la fanno i tagijki guidati da Ahmad Shah Massud, anche lui un estremista islamista – particolare che la propaganda dei paesi occidentali preferisce lasciare da parte dopo che Massud si stava lentamente trasformando in un alleato contro gli estremisti pashtun, diventati poi i Taliban. Massud era diventato tanto ingombrante che fu assassinato da inviati del regista del 9/11, Osama bin Laden, due giorni prima dell’“attacco all’America”. Tutti i paesi occidentali, arabi e la Cina di Deng Xiaoping parteciparono con soldi e armi alla Jihad antisovietica, che sul terreno fu guidata dall’esercito pakistano, forte dei legami “storici” con i pashtun, su entrambi i lati della frontiera. 

L’esercito di Islamabad agisce dagli anni Settanta con l’obiettivo di annettersi di fatto l’Afghanistan sulla base della presunta necessità per il Pakistan di avere una “profondità strategica” – per difendersi da quale nemico non è mai stato chiaro. Il fatto è che, nel 1971, l’allora Pakistan Orientale si ribellò allo strapotere di Islamabad e diventò il Bangladesh, con l’aiuto decisivo dell’esercito indiano. Un’umiliazione che i militari e i politici pakistani non hanno digerito e che li ha portati a elaborare la teoria della “profondità strategica”.

Cacciati finalmente i sovietici, nel 1992 i vari leader della Jihad cominciano a combattersi tra di loro, gettando il paese in un caos nel quale di fatto governavano i banditi di strada, i trafficanti di droga e i contrabbandieri legati all’uno o all’altro leader tribale, le milizie private dei signorotti feudali.

I Taliban – di etnia pashtun – nascono in questo periodo in una rivolta contro le violenze delle bande di strada, una rivolta diretta e organizzata dai militari pakistani, che sognano di far correre sulle aride montagne afghane lunghi tratti di oleodotti che dovrebbero portare il petrolio e il gas dai deserti arabi e dalle pianure delle repubbliche ex-sovietiche in tutta l’Asia, portando ricchezze inenarrabili sul loro cammino – e l’agognata “profondità strategica” agli strateghi di Rawalpindi (la città-gemella della capitale Islamabad dove risiedono gli alti gradi dell’esercito).

Poi venne Osama bin Laden, l’11 settembre, la reazione americana, eccetera.

E veniamo ai giorni nostri.

Dall’inconsistenza di quello che avrebbe dovuto essere l’esercito afghano è chiaro che, nei venti anni di occupazione da parte degli americani e dei loro alleati occidentali, si è fatto poco o nulla per portare a un’evoluzione la società afghana. Dispiace dire – ma bisogna pur farlo – che gli stessi afghani hanno fatto poco per andare in quella direzione: i capi tribali hanno continuato a combattersi tra di loro, la grande maggioranza della popolazione ha continuato a subirli passivamente, quando non ad appoggiarne l’uno o l’altro.

Questo percorso porterà nelle prossime settimane/mesi all’instaurazione a Kabul di un regime di Taliban “nuovi” – cioè più moderati, meno provocatori, disposti forse a qualche compromesso con l’Occidente in cambio di soldi e di tranquillità. Probabilmente è questa prospettiva che ha portato il presidente americano Joe Biden a ritirare precipitosamente le sue truppe dal disgraziato paese asiatico. È vero che l’impegno era stato preso dal suo predecessore – il disastroso Donald Trump – ma l’incredibile precipitazione con la quale si è svolto il ritiro della truppe non ha una spiegazione logica.

Qualcuno si è impegnato a sostituire i soldati americani per tenere sotto controllo gli estremisti islamici? E chi? La Cina? La Russia? Ma la Cina è un’alleata di ferro del Pakistan, il “padre” dei Taliban, e la Russia è un’alleata della Cina e certo non disposta a fare un rischioso favore a Biden. La Turchia dell’espansionista Recep Tayyp Erdoğan, che da tempo scalpita per avere “un ruolo” in Afghanistan? Possibile. 

Ma l’ipotesi più plausibile – sempre tenendo conto che probabilmente ci vorranno mesi e anni a capire cosa abbia ispirato la precipitosa fuga degli americani da una guerra che non stavano vincendo ma non stavano nemmeno perdendo – rimane quella di un accordo col Pakistan e con i Taliban, che dovrebbero essere considerati un’unica entità, se si vuole davvero capire cosa succede in quella parte del mondo mentre politici e osservatori vari continuano a vaneggiare di “appoggi”, “legami”, di “alcuni settori dei servizi”, eccetera.

Se questa è la ragione – e ne sono tutt’altro che sicuro – si tratta di un calcolo sbagliato: il Pakistan continuerà a usare l’“ambiguità strategica”, vale a dire il patrocinio di tutti i peggiori estremisti musulmani prendendone ogni tanto qualcuno, verosimilmente i meno malleabili, e consegnandolo agli Usa. Per il momento, meglio mostrare il volto “moderato” dei Taliban. Quando sarà il momento di fare la faccia cattiva, vedrete che lo faranno senza esitazioni di sorta. Ricordiamo che, lasciando da parte la protezione accordata a killer estremisti di varia estrazione come Omar Sheik – uno degli assassini di Daniel Pearl – e Hafiz Mohammad Said – leader di una banda chiamata Lashkar e Taiba – è estremamente probabile che i militari pakistani abbiano protetto per anni lo stesso Osama bin Laden, fino a quando non sono maturate le condizioni per lasciarlo esposto alla rappresaglia americana.

Quanto alla Cina, attuale padrino del Pakistan, pare che abbia ottenuto dai Taliban la promessa che non appoggeranno un’eventuale rivolta degli uighuri del Xinjiang, vittime da parte di Pechino di una feroce repressione che l’Onu ha definito un “genocidio”.

Vedremo se questo è vero, e vedremo chi manterrà e chi violerà le promessa fatte in questi giorni. Quello che si può dire con sicurezza è che il ritiro degli USA e la cessione del “controllo” dell’Afghanistan al Pakistan e alla Cina non promettono nulla di buono, per nessuno.
Beniamino Natale
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