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Khalistan in Italia
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La notizia, in Italia, è stata a stento riportata. E, in effetti, a uno sguardo superficiale, si tratta di poca cosa: qualche giorno fa, nottetempo, sui muri dell'Ambasciata indiana di Roma sono comparse scritte inneggianti al Khalistan (per essere brevi, la favoleggiata e da alcuni vagheggiata patria indipendente dei Sikh originari del Punjab indiano e pakistano) condite da 'coriandoli' a base di pagine della Costituzione indiana strappate. Un video dell'accaduto, girato dagli stessi 'vandali' e da loro diffuso sui social media ha fatto il giro del web e in India ha fatto scalpore, suscitando la protesta formale di New Delhi. Nelle stesse ore, in corrispondenza cioè con la festa della Repubblica indiana, qualcosa di simile succedeva a Vancouver, in Canada. Dove il governo di Justin Trudeau è da molto tempo accusato di flirtare con la locale, e potente, comunità Sikh. Non si tratta, difatti, come alcuni sui social media hanno cercato di far credere, di semplici atti di vandalismo a opera di cittadini che sostenevano la protesta dei contadini punjabi contro le nuove regolamentazioni sull'agricoltura in India che è in atto da qualche mese. Si tratta invece della punta di un iceberg in larga parte sommerso che ha ormai da anni radici in Italia e che ha strettissimi legami con il terrorismo di matrice jihadi finanziato e gestito dal Pakistan. In teoria, del Khalistan Movement, della Babbar Khalsa e del terrorismo di matrice Sikh in generale si sono perse le tracce da molti, moltissimi anni: da quando cioè, a opera del defunto (e anch'esso Sikh) superpoliziotto KPS Gill, i gruppi erano stati decimati e messi in fuga. In pratica, non è così, e non lo è da un po' di anni. In Italia almeno da quando, nel 2005, Sant Ramanandas Dass (un guru Sikh), veniva ucciso a Vienna mentre arringava una folla di fedeli. Il suo omicidio era stato rivendicato con una lettera inviata all’emittente londinese radio Akash e a un paio di altre emittenti sikh in India, da Ranjit Singh Neeta. Nome sconosciuto ai più, ma notissimo al governo, ai servizi segreti e alla polizia indiana. Neeta, uno dei venti ‘most wanted’ criminali ricercati dalla polizia indiana, è difatti a capo di un gruppo che si chiama Khalistan Zindabad Force (Kzf) e che è da anni sulla lista dei gruppi terroristici degli Stati Uniti. Il Kzf, essenzialmente formato da sikh provenienti dalla regione indiana di Jammu e responsabile di una serie di gravi attentati compiuti in India negli ultimi anni, si propone la formazione di un Khalistan sovrano. Secondo la polizia indiana Neeta si troverebbe a Lahore ospite dell'Isi pakistana, che ospita anche Wadhawa Singh Babbar, capo della Babbar Khalsa: gruppo responsabile di una lunga lista di attentati e omicidi, e iscritto dal 2005 dall'Unione Europea nella lista dei gruppi terroristici. Secondo notizie trapelate all'epoca dei fatti di Vienna, l'assassino di Sant Ramanandas Dass aveva fatto tappa in Italia prima di recarsi in Austria. E la Babbar Khalsa avrebbe ancora una nutrita schiera di seguaci in tutta Europa e anche in Italia: dove approfitta in genere delle celabrazioni pubbliche per il Capodanno Sikh per reclutare nuova manodopera. A Lahore, secondo fonti dell'intelligence, i gruppi terroristici Sikh avrebbero stretto legami con gruppi jihadi che combattono in Kashmir e non solo. Il Khalistan Movement, che non è un gruppo terrorista vero e proprio ma che al terrorismo si sovrappone e in esso spesso sconfina, ha trovato in Italia, nel corso degli ultimi anni, terreno fertile e ha cominciato, con il sostegno e la benedizione dei servizi pakistani, a essere molto attivo sul terrtorio. Da qualche anno a questa parte membri della comunità Sikh si uniscono regolarmente ai pakistani che manifestano per 'liberare' il Kashmir dall'India. Nessuno dei dimostranti è kashmiro o sia pur vagamente indiano, sono quasi tutti pakistani e tutti punjabi, ma poco importa. I rappresentanti della comunità Sikh si uniscono alle manifestazioni portando cartelli con su scritto “Khalistan Kalsa” e tutte le manifestazioni sono state benedette dalla presenza di Lord Nazir Ahmed (fino a quando il signore in questione non è stato privato del titolo di Lord per un sordido scandalo di abusi sessuali), che sostiene apertamente il Khalistan e ha lanciato un paio d'anni fa una nuova campagna chiamata 'Kashmir2Khalistan'. La campagna è apertamente sostenuta anche da un'altro gruppo, che è stato dichiarato fuorilegge in India ma non nel resto del mondo. L'organizzazione si chiama 'Sikhs for Justice', e promuove una raccolta di firme per domandare l'indipendenza del Punjab dall'India: curiosamente, non gli importa nulla dell'indipendenza del Punjab pakistano. L'Italia, che possiede la più numerosa comunità Sikh europea dopo il Regno Unito, è diventata un hub privilegiato per l'organizzazione. Tanto che, alla fine dello scorso anno, alcuni operatori che lavoravano ai centri di accoglienza di Napoli rilevavano un flusso costante di individui di nazionalità indiana e di religione sikh che domandavano asilo politico sostenendo di essere perseguitati in India a causa della loro appartenenza al Khalistan Movement. I richiedenti asilo in questione arrivano via nave, e nella maggior parte dei casi si presentavano agli uffici competenti già armati di petizioni redatte da avvocati locali. Pronti a nutrire le fila di coloro che, in nome e per conto di Sikhs for Justice raccolgono denaro e consensi nei gurudwara e nelle riunioni religiose e non della comunità. Tutto regolare? Non proprio. Il denaro raccolto arriva difatti a destinazione adoperando gli stessi canali che da anni nell'Italia del nord vengono adoperate da gruppi jihadi pakistani per finanziare le loro attività in India e altrove. Provenivano dall'Italia, difatti, i fondi adoperati per finanziare l'omicidio, nel 2018, di cinque leader politici punjabi, così come provenivano dall'Italia i fondi usati da gruppi teroristici pakistani per una serie di attentati negli ultimi anni in India, a cominciare dal famoso attacco di Mumbai del Novembre 2008. Non solo. Avtar Singh Pannu, coordinatore generale di "Sikhs For Justice" ha invitato, prima della pandemia, i capi dei gurudwara italiani, adoperando le celebrazioni in occasione del 550 anniversariod ella nascita di Guru Nanak, a reclutare volontari per promuovere il referendum, diffondere la mappa del Khalistan e avviare l'ennesima raccolta fondi. Inoltre, i membri del comitato del Gurudwara Shree Hargobind Sahib a Leno, Brescia, conducevano allo stesso scopo una campagna porta a porta nelle zone di Bergamo e Brescia. Lo stesso accadeva a Cremona, al Gurdwara Shaheed Baba Deep Singh. Secondo fonti locali, l'SFJ utilizzava dipendenti di origine pakistana e indiana che lavorano in comuni con un'alta popolazione sikh per raccogliere i dati personali di coloro che potrebbero sostenere la campagna. E secondo le stesse fonti, alcuni consolati pakistani sarebbero stati direttamente coinvolti nella faccenda. Nel 2019 un blitz della polizia italiana ha chiuso a Udine un Internet point che fungeva soltanto da centro di raccolta fondi per cittadini di prevalenza pakistani, quasi tutti con documenti falsi e senza alcuna attività lavorativa dichiarata, che spedivano soldi in Pakistan o in Afghanistan. Gli investigatori hanno scoperto tra Brescia e Udine una vera e propria rete di negozi, parrucchieri, alimentari o altre attività 'insospettabili' che venivano adoperati per riciclare denaro sporco e per inviare denaro in Pakistan o in Afghanistan. Denaro che, secondo gli inquirenti, proveniva da attività come la prostituzione o il traffico di droga e da “sospetti legami con attività legate al terrorismo islamico”. L'ammontare delle transazioni effettuate, sempre secondo gli inquirenti, superava gli otto milioni di euro. Parte dei quali è finita a finanziare omicidi e attentati. Nel mirino degli inestigatori, all'epoca, sono finiti anche una serie di centri di cultura islamica pakistani, centri che dietro una vernice sottile raccoglievano in realtà denaro destinato alla jihad e indottrinavano fedeli, nonostante la maggior parte di queste organizzazioni avesse firmato, nel 2017, il 'Patto di Brescia per un Islam laico': un documento in cui le organizzazioni in questione riconoscevano la laicità dello stato italiano e si impegnavano a collaborare con i rappresentanti dello stato per combattere il terrorismo e l'integralismo religioso. Sarebbe forse il caso di soffermarsi un po' più a fondo, anche e soprattutto nell'interesse della comunità Sikh italiana che è generalmente ben integrata, sui legami tra terrorismo jihadi e terrorismo Sikh. Per evitare che l'Italia diventi, ancora di più, un centro di smistamento di organizzazioni terroristiche assoritite e denaro destinato ad attentati nel resto del mondo.
Francesca Marino
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