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Emma Reilly
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    Emma Reilly
“La cosa che più mi sconvolge è che, dopo tutti questi anni, sono rimasta l'unica a denunciare i metodi adoperati dalla Commissione diritti umani delle Nazioni Unite. Mi addolora che le persone facciano affidamento sulle Nazioni Unite, mentre le Nazioni Unite forniscono alla Cina nomi e identità di dissidenti e attivisti”. A parlare è Emma Reilly, avvocato per i diritti umani che ha lavorato fino a pochi giorni fa per la Commissione diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra. Fino a pochi giorni fa perchè Reilly è stata licenziata dopo che il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato un articolo su di lei e dopo essere apparsa su un canale televisivo inglese. La storia di Emma Reilly è, francamente, scioccante. Assunta nel 2013 dall'UNHRC, dopo poco più di un anno riceve la mail di un diplomatico cinese con sede a Ginevra in cui si sollecita il 'favore' di confermare nomi e identità dei “separatisti cinesi anti-governativi” che avrebbero partecipato al Consiglio di marzo della Commissione. La pratica, espressamente vietata dal regolamento delle NU, è chiaramente lesiva dei diritti degli individui ed espone i dissidenti, un certo numero dei quali è attualmente cittadino di paesi europei, a ritorsioni e minacce nei loro confronti e delle loro famiglie rimaste in patria. E tuttavia il diretto superiore dell'avvocato Reilly, Eric Tistounet, non si dimostra affatto sorpreso. Anzi. Impartisce direttive al suo staff perchè i nomi in questione siano condivisi con i diplomatici cinesi per “non esacerbare la sfiducia della Cina nei nostri confronti”. Effettuando un controllo sulla passata corrispondenza, Reilly scopre che il 'favore' richiesto dal diplomatico cinese è in realtà un fatto di routine. Seguendo quanto prescritto dal regolamento interno dello staff UN, Reilly stila un rapporto denunciando a chi di dovere i fatti di cui era venuta a conoscenza. Ma nulla è cambiato. Anzi. Anche se, le stesse Nazioni Unite hanno confermato due volte, nel 2017 e poi nel 2019, la veridicità delle accuse di Reilly. All'inizio, Emma è stata riconosciuta come 'whistleblower', uno status per il quale le Nazioni Unite prevedono speciali protezioni. E, in una lettera del 2018, il capo di gabinetto del segretario generale Antonio Guterres, Maria Luiza Ribeiro Viotti, esortava a "risolvere informalmente" questa controversia, a cercare "mediazione" con Emma Reilly e a "trovarle una collocazione appropriata il più rapidamente possibile". Niente di tutto ciò è stato fatto. La Reilly ha continuato a percepire uno stipendio ma non le è stata più attribuita, di fatto, alcuna mansione. Una specie di raffinato mobbing, che pone la persona che lo subisce in una situazione altamente logorante. Dopo l'intervista a Le Monde, Reilly è stata licenziata con il pretesto formale di aver violato le direttive impartitele dai suoi datori di lavoro: non parlare con la stampa o a mezzo social media. E, secondo Reilly, si tratta in ultima analisi di una scusa migliore di quella adoperata in genere per licenziare le persone che denunciano, i cosiddetti 'whistleblower': accuse di cattiva condotta sessuale per gli uomini e di essere mentalmente instabili per le donne. La cosa peggiore di tutta questa storia, è che la Commissione per i diritti umani, istituita per proteggere i diritti fondamentali degli individui, si pieghi a minacce e lusinghe della Cina. Non c'è nulla di strano difatti che Beijing cerchi di coprire il genocidio degli Uighuri, il genocidio culturale dei tibetani o le minacce, le violenze e l'uccisione di dissidenti e attivisti. Che però la Commissione diritti umani permetta alla Cina, come ha fatto nel marzo del 2020, di installare nei corridoi del palazzo delle Nazioni una spregevole mostra fotografica in cui si vedono Uighuri patriottici e felici mentre fuori dal Palazzo e nelle stanze interne gli attivisti denunciano torture e campi di concentramento, è francamente desolante. Da qualche anno ormai Pechino sta cercando di riscrivere, a proprio beneficio, la definizione di diritti umani cancellando dai parametri di valutazione la libertà di espressione a favore dello sviluppo economico. Il che copre, a guardare da vicino, tutte le violazioni dei diritti umani che potrebbero essere eccepite lungo la Belt and Road Initiative. In soldoni: va bene il genocidio dei Baloch lungo il China Pakistan Economic Corridor, va bene il genocidio degli Uighuri, se sono compiuti in nome dell'aumento del reddito pro-capite. Molti funzionari dell'ONU e molti funzionari dell'UE a Bruxelles dichiarano, in privato, di aver subito pressioni cinesi, pressioni che rasentano a volte il ricatto. Ma una cosa è essere 'pragmatici' come sostengono, e fare piccole concessioni. Una cosa è, come sta accadendo nel caso di Reilly, cercare di insabbiare una pratica sanzionata dalle stesse Nazioni Unite e ridurre l'UNHRC a un patetico fantoccio. Le Nazioni Unite dichiarano che questa consuetudine è stata interrotta, ma non forniscono alcuna prova. Reilly ha fornito prove delle sue denunce e domanda un'indagine indipendente. Un'indagine assolutamente necessaria, se la Commissione per i diritti umani vuole conservare uno straccio di reputazione.
Francesca Marino
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