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DIGHE
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    pakistan hydro politics
“L’India ha occupato illegalmente il Kashmir e beneficia di questa occupazione. Sta cercando di distruggere l’economia pakistana costruendo dighe dall’altra parte del confine, dighe che bloccano il corso dei nostri fiumi o ne cambiano completamente il tracciato”. A parlare è Mohammed Hafeez Saeed, capo della Jamaat-u-Dawa e accusato dall’India di essere il mandante della strage di Mumbai. Nei suoi sermoni del venerdì Saeed, ormai da molti mesi, batte e ribatte sull’ultima frontiera della guerra infinita fra India e Pakistan: lo sfruttamento dei corsi d’acqua. E non è il solo. La guerra dell’acqua, come viene ormai definita da più parti, ha largamente sostituito come principale materia del contendere la disputa territoriale sui confini della regione del Kashmir e rischia di essere secondo molti, nel prossimo futuro, la causa di una eventuale guerra tra le due potenze nucleari. Riassumendo in pillole una questione su cui si sono spesi tonnellate di inchiostro e fiumi di parole, la questione è questa: i rapporti tra i due paesi in materia di gestione dei corsi d’acqua sono regolati da un trattato del 1960. Il trattato attribuisce al Pakistan lo sfruttamento dell’ottanta per cento del sistema di affluenti del fiume Indo. L’India, nel cui territorio il fiume nasce, è autorizzata ad adoperare entro certi limiti le acque dell’Indo e dei suoi affluenti a scopi agricoli, industriali e, ovviamente, per dissetare le popolazioni che vivono lungo il corso dei fiumi. La cosa ha funzionato fino a che India e Pakistan, ma in particolare l’India, sono stati due paesi a vocazione essenzialmente agricola. Con il boom economico degli ultimi anni, New Delhi si è trovata a dover affrontare una domanda di risorse energetiche più che quadruplicata e in continua crescita. Il che ha portato alla costruzione e alla progettazione (contestata, spesso scriteriata e indiscriminata) di un numero impressionante di quelli che Nehru definiva “i templi del futuro”: le dighe. Nello specifico, l’India ha dato inizio alla costruzione di un megaprogetto di dighe su una serie di affluenti dell’Indo che si trovano dalla parte indiana della travagliata regione del Kashmir. Progetto che, secondo Islamabad, sarebbe come “un fucile puntato alla tempia” del Pakistan. Leggi: se in momenti di particolare conflitto l’India chiudesse i rubinetti, il Kashmir pakistano e, soprattutto, la dominante regione del Punjab si troverebbero in ginocchio in meno di venti giorni. L’India, d’altra parte, si trova ad affrontare lo stesso problema su un altro fronte caldo, quello cinese. Pechino ha difatti annunciato la costruzione di un complesso di dighe in Tibet, sul fiume Yarlung Zangbo. Quello stesso fiume che, lungo la sua discesa verso il mare, attraversa il confine indiano e prende il nome di Brahmaputra. Dal Brahmaputra dipende in gran parte l’economia di una vasta porzione degli stati del nordest indiano, l’esistenza stessa dell’isola fluviale di Majuli e l’equilibrio dell’ecosistema himalayano. Pechino non si è preoccupata fino a questo momento di rispondere alle istanze di New Delhi. E New Delhi risponde alle preoccupazioni pakistane con generiche rassicurazioni e facendosi forte di un parere emanato nel 2008 da osservatori delle Nazioni Unite secondo cui gran parte delle preoccupazioni pakistane sarebbero infondate. La guerra dell’acqua, dicono gli analisti, è appena cominciata. E il futuro, non si prospetta affatto più roseo. Esiste difatti un progetto chiamato ‘Garland of rivers’: una serie di canali e dighe, cioè, che connetterà tutti i principali fiumi cambiando definitivamente il volto del paese e stravolgendo l’assetto idrogeologico di mezza India. Nonostante le polemiche suscitate, ad esempio, dall’entrata in funzione della cosiddetta Tehri Dam.
La diga di Tehri nello stato dell’Uttaranchal, entrata in funzione a fine 2006, è la quinta diga più grande del mondo, alta 260 metri e con un bacino d’acqua (o reservoir) di quaranta chilometri quadrati. La costruzione è stata cominciata nel 1978, e ultimata tra un mare di polemiche nel 2006 allo scopo di fornire energia elettrica e acqua potabile a gran parte dell’India del nord e alla capitale Delhi. Non è l’unica diga sul Gange, ce ne sono altre, ma senz’altro è la più contestata. Sull’altare di questo nuovissimo ‘tempio del futuro’ (definizione di Nehru), è stata difatti sacrificata l’antica cittadina di Tehri, completamente sommersa assieme a quaranta villaggi. Altri settantadue villaggi sono stati sommersi parzialmente, ed è stato necessario costruire una nuova strada che connettesse la zona del Garwhal, quella in cui si trovano le sorgenti del Gange, al resto dell’India. Da subito, gli abitanti dei villaggi che vivono attorno al reservoir hanno lanciato l’allarme: la terra sta franando, gli smottamenti sono sempre più frequenti e nelle case si possono notare crepe che si allargano ogni giorno che passa. Sembra difatti che dal febbraio 2007 l’instabilità del terreno sia aumentata in modo esponenziale, come sostengono al Technology and Research Network di Dehradun. La diga è stata difatti costruita su di una faglia sismica altamente sensibile e su terreno particolarmente friabile, soggetto a frane e smottamenti. Nel 1991 un terremoto del settimo grado, con epicentro a circa cinquanta chilometri dalla diga, aveva già devastato la regione. Nel 2003, una frana ha distrutto mezza Uttarkashi bloccando per oltre un mese l’accesso alla zona di Gangotri. Frane e smottamenti, come sa chiunque abbia vissuto o viva da questa parti, sono la norma tutto l’anno appena cade qualche goccia di pioggia. Durante il monsone gli abitanti dei villaggi, specialmente quelli che vivono vicino al fiume, trascorrono le notti con le valigie pronte, stretti tra il terrore della montagna che scivola giù e il livello del fiume che sale grazie alla diga di Maneri, più a nord e più piccola di quella di Tehri. Gli esperti di vari istituti, incluso il Geological Survey of India, avevano più volte sottolineato il pericolo aggiungendo che l’instabilità del terreno minaccia anche l’esistenza stessa della diga, ma non è servito a niente. Eppure, non si tratta di una questione da poco: “Se al Pakistan venisse mai in mente di bombardarci” commenta un alto ufficiale dell’esercito indiano “Non avrebbe alcun bisogno di arrivare fino a Delhi. Gli basterebbe far saltare la diga di Tehri per ottenere un risultato analogo”. Se difatti, per un qualunque motivo, la diga crollasse, nel giro di qualche ora Rishikesh, Haridwar e via via fino a Delhi, si ritroverebbero inesorabilmente sotto qualche metro d’acqua. Abbastanza singolarmente, però, la campagna contro la diga di Tehri e le proteste degli abitanti dei villaggi non hanno mai avuto l’eco che, invece, ha suscitato la campagna contro le dighe sulla Narmada. Anche perchè, fino a un certo punto, la maggior parte degli abitanti delle zone limitrofe è stata convinta che la diga avrebbe portato occupazione, elettricità e benessere. “Ma non è stato così” dicono a Rishikesh, ad Haridwar e a Benares “La situazione è, semmai, peggiorata. L’energia elettrica manca ormai per moltissime ore al giorno”. E continua a mancare anche a Delhi, dove i black out sono sempre più frequenti. E dove il Sonia Vihar Plant, un mastodontico impianto per il trattamento delle acque inaugurato il 2002 , è stato di fatto privatizzato e dato in concessione alla Ondeo-Egremont, consociata del gigante mondiale Suez Lyonnaise des Eaux. Al Sonia Vihar Plant, per gentile concessione del governo su pressione della Banca Mondiale, arriva l’acqua della lontana Tehri che però, a quanto pare, non è sufficiente. La stessa acqua che gli abitanti di città e paesi lungo le rive del Gange vedono drammaticamente diminuire e cambiare sotto i loro occhi ormai sempre più velocemente.
Per tornare all’Indus Water Treaty, Modi ha annunciato di voler sospendere il trattato, che non era mai stato sospeso in precedenza nemmeno durante le guerre tra India e Pakistan. Decisione senza precedenti che segna un punto di svolta nella politica estera indiana e che se messa in atto, avrebbe su Islamabad effetti peggiori di quelli dell'atomica. Islamabad si sta freneticamente appellando alla Banca Mondiale, ma alle accuse pakistane New Delhi ha sempre risposto facendosi forte di un parere emanato nel 2008 da osservatori delle Nazioni Unite secondo cui gran parte delle preoccupazioni pakistane sarebbero infondate. Il Pakistan, messo alle corde, ha addirittura accusato l'India di aver programmato l'assalto di Uri per fare incolpare il Pakistan dalla comunità internazionale, e minaccia di spingere Pechino a restituire il favore agli indiani chiudendo il flusso verso l'India del fiume Yarlung Zangbo. Quello stesso fiume che, lungo la sua discesa verso il mare, attraversa il confine indiano e prende il nome di Brahmaputra. Dal Brahmaputra dipende in gran parte l’economia di una vasta porzione degli stati del nordest indiano, l’esistenza stessa dell’isola fluviale di Majuli e l’equilibrio dell’ecosistema himalayano. La guerra è appena cominciata.
Francesca Marino
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