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IL XINJIANG, PERICOLO ISLAMICO PER LA CINA
  • Xi Jinping
    Xi Jinping
Le autorita’ cinesi li chiamano “centri per la formazione professionale”. Pero’ ci si entra, come ha dichiarato un testimone ai reporter di Radio Free Asia (RFA), “in manette e con un cappuccio nero sulla testa”.

Secondo l’ emittente, che e’ finanziata dalle autorita’ statunitensi, almeno due “centri” che si trovano nella Regione Autonoma Uighura del Xinjiang, nel nordovest della Cina, sono in realta’ dei campi di “rieducazione”. Nella sola contea di Yining esistono almeno cinque di questi campi, secondo i testimoni. Tursun Qadir, che insegna in uno dei campi, ha raccontato che “in ogni classe ci sono dalle 30 alle 50 persone, e ritengo che in tutta la contea ci siano almeno 1500 persone che seguono il programma di rieducazione”. La maggioranza di loro - secondo l’ insegnante - sono “ex-criminali o sospetti”, tra cui alcuni di coloro che hanno scontato anni di reclusione in seguito alla ribellione contro il governo cinese di 20 anni fa”. La rivolta, iniziata dopo l’ esecuzione di trenta indipendentisti, scoppio’ nel febbraio 1997. Altri, aggiunge Qadir, vengono portati nei “centri”, “perche’ hanno partecipato ad attivita’ religiose”, per esempio “mandando i loro figli a scuole religiose clandestine”. Un altro insegnante ha raccontato a RFA che il campo n.4 della contea all’ inizio era chiamato “Centro per l’ addestramento dei cittadini alle leggi e ai regolamenti”. In seguito, il nome e’ stato cambiato in “Centro per sviluppare capacita’ per intraprendere una carriera professionale”. “Ovviamente, la ragione del cambiamento del nome e’ che si vuole evitare di dare una cattiva impressione”, ha aggiunto il testimone. Nei campi, ha denunciato l’ organizzazione umanitaria Human Rights Watch (HRW), il tempo di permanenza dei “rieducandi” nei campi viene decisa dalle locali autorita’ di polizia. “Agli studenti non e’ consentito lasciare i campi fino a quando non hanno completato il programma ma la durata del programma non e’ chiara - i regolamenti affermano semplicemente che termina quando ‘e’ stato raggiunto un livello soddisfacente’” - conferma uno dei testimoni ascoltati da RFA.

La denuncia dell’ esistenza di decine di questi campi e’ solo l’ ultima di una serie di notizie che indicano che nel territorio si e’ raggiunto il punto di non ritorno.

Il Xinjiang e’ un vasto territorio che comprende la catena montuosa del Kunlun e il deserto del Taklamakan. E’ ricco di materie prime e si trova in una situazione di grande importanza strategica, dato che confina con le repubbliche musulmane dell’ Asia Centrale oltreche’ con India, Pakistan e Afghanistan. Nei decenni passati, la regione- che i nazionalisti locali chiamano Turkestan dell’Est - è stata meta di milioni di emigrati da altre province della Cina: oggi gli immigrati sono circa 10 milioni; gli uighuri - nativi della regione, turcofoni e musulmani - sono 9 milioni mentre circa un altro milione di abitanti è composto da altre minoranze come i kirghizi e i khazaki.

Dal 2009, quando circa 200 persone furono uccise in pogrom contro gli immigrati cinesi a Urumqi, la capitale della provincia, il Xinjiang e’ isolato dal resto della Cina e del mondo. Spesso Internet viene bloccata e le visite di giornalisti e diplomatici non sono consentite. Alla fine del 2015 Ursula Gauthier, corrispondente del settimanale francese Nouvelle Observateur, e’ stata esplusa dalla Cina per aver cercato di raccogliere informazioni di prima mano nella regione.

Un’ eccezione e’ stata fatta, sempre nel 2015, per George Osborne, allora ministro delle finanze nel governo britannico guidato da David Cameron, che ha visitato Urumqi senza far alcun cenno alla situazione umanitaria.

A partire dalle violenze di Urumqi, migliaia di uighuri sono stati condannati a pene detentive e decine sono stati mandati davati ai plotoni di esecuzione. Tra gli osservatori c’e’ consenso sul valutare che negli ultimi anni la Cina - pur rimanendo il paese con il maggior numero di esecuzioni del mondo, circa due-tremila nel 2016 - abbia fortemente contenuto il numero della condanne a morte. L’ unica regione nella quale sono aumentate e’ il Xinjiang, dove sono decine ogni anno (il numero esatto non si puo’ conoscere perche’ Pechino lo considera un segreto di Stato).

La situazione e’ peggiorata da quando a capo del partito comunista della regione e’ stato nominato Chen Quanguo, un “duro” in ascesa nella gerarchia comunista che gia’ si e’ distinto per il “pugno duro” usato come leader del partito nel Tibet. Tra le altre iniziative repressive, Chen ha ordinato il sequestro di tutte le copie del Corano, il libro sacro dell’ Islam, e dei tappetini che i musulmani usano per le preghiere. Il sequestro vale non solo per le famiglie uighure, ma anche per quelle appartenenti ad altre minoranze etniche. “Quasi tutte le famiglie possiedono un Corano e alcuni tappetini per la preghiera”, ha commentato Dilxat Raxit, portavoce dell’ organizzazione “storica” della diaspora uighura, il World Uyghur Congress. Notizie di sequestri di questo tipi, ha aggiunto Raxit, sono venute da numerose localita’ tra cui Kashgar e Hotan, due centri della cultura uighura.

Spesso le pene sono sproporzionate ai reati imputati ai detenuti uighuri. Una giovane donna di Kashgar, Horigul Nasir, e’ stata condannata a dieci anni di reclusione - secondo la testimonianza del fratello - per aver detto ad un’ amica che non portare il velo e’ “un peccato”.

Il caso piu’ eclatante e’ quello di Ilham Tohti, professore all’ Universita’ delle Minoranze di Pechino, condannato tre anni fa all’ ergastolo sulla base di articoli che aveva scritto e di lezioni che aveva tenuto ai suoi studenti. In occasione del terzo anniversario della sua condanna - che gli e’ stata inflitta nel settembre del 2014 - un gruppo di esuli uighuri basato in Germania, la Ilham Tohti Inititive, ha ricordato che il professore, lungi dall’ essere un estremista, “promuoveva il dialogo tra la comunita’ maggioritaria dei cinesi han e quella uighura” e che era “specificamente contrario al secessionismo”. Tohti, ha proseguito il gruppo, “nonostante quello che stablisce la legge cinese, non gode del suo diritto a visite regolari ed e’ tenuto di fatto incommunicado”. Ai suoi avvocati e’ stato impedito di presentare il ricorso in appello. Il professore ha ricevuto nel 2014 il premio “Barbara Goldsmith” dal centro americano del PEN e, nel 2016, il premio “Martin Ennals” per i difensori dei diritti umani.

L’ eliminazione dalla scena di Tohti e di altri uighuri moderati e promotori del dialogo con la maggioranza cinese ha favorito il ricorso alla violenza da parte di gruppi di disperati.

Un percorso - l’ eliminazione delle voci moderate - che si e’ verificata gia’ in altre situazioni in Asia e che ha favorito l’ emergere di gruppi violenti legati all’ internazionale islamica del terrore. I casi piu’ evidenti sono quelli dei musulmani del Kashmir indiano e quello dei Rohingya in Birmania. Negli ultimi anni Pechino ha piu’ volte affermato che “migliaia” di uighuri sono stati reclutati dallo Stato Islamico o ISIS in Siria e in Iraq ma finora non si sono trovati fatti sufficienti a confermare questa tesi.
Beniamino Natale
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