Pervez Musharraf
Erano le 18.45 del 12 ottobre 1999. Il generale Pervez Musharraf, Capo di Stato Maggiore dell’esercito pakistano, era seduto su un Airbus della Pakistan International Airways (Pia) in viaggio da Colombo, nello Sri Lanka, a Karachi. Il generale, di ritorno da una visita privata con la moglie Sehba, era rilassato, immerso nei suoi pensieri. A riportarlo alla realtà fu il suo segretario Nadeem Taj: “Il pilota le chiede di raggiungerlo nella sua cabina, signore’’. Quello che gli disse il pilota, ha raccontato in seguito Musharraf, sembrava incredibile: il servizio di controllo del traffico aereo pakistano aveva comunicato al comandante del velivolo che l’Airbus non aveva avuto l’autorizzazione ad atterrare non solo a Karachi, ma in nessun aeroporto del Pakistan. Taj ed i piloti avevano cercato di mettersi in contatto con lo Stato Maggiore dell’esercito e con la direzione della Pia. Niente da fare. L’unica comunicazione possibile era quella con la torre di controllo di Karachi che continuava a ripetere il suo allucinante messaggio: un’aereo della compagnia di bandiera nazionale, sul quale viaggiavano centonovantotto cittadini di tutte le età tra cui il capo dell’esercito, non poteva atterrare in Pakistan e doveva dirigersi ‘’immediatamente’’ verso un paese vicino. Il paese più vicino era l’India, il Nemico Numero Uno contro il quale lo stesso Musharraf aveva lanciato pochi mesi prima, a sorpresa, un audace attacco militare fermato più dalla diplomazia internazionale che dalla reazione dell’esercito indiano.
Il velivolo era al termine del suo viaggio e il carburante non era sufficiente per raggiungere destinazioni più lontane, come i paesi del Golfo o il Nepal. I piloti dissero al generale che avrebbero potuto provare ma non erano sicuri di farcela. La torre di controllo non aveva fornito alcuna spiegazione. ‘’Credo che abbia qualcosa a che fare con lei, signore’’, disse il pilota allo sbalordito Capo di Stato Maggiore. ‘’L’ intera vicenda sembrava diabolica’’commenta il generale nelle sue memorie. ‘’Potremmo andare ad Ahmedabad (in India) o provare l’Oman ma dobbiamo decidere immediatamente’, gli disse il capitano. In un primo momento, Musharraf insistette per un atterraggio a Karachi ma i piloti gli spiegarono che la pista era stata ostruita, le luci spente e un incidente sarebbe stato inevitabile. I minuti passavano e il carburante continuava a diminuire pericolosamente. ‘’Non possiamo andare da nessuna parte, non abbiamo più carburante’’ comunicò il capitano alla torre di controllo. Dopo qualche agghiacciante minuto di silenzio, una risposta arrivò: l’Airbus poteva atterrare a Nawabshah, un minuscolo aeroporto in una zona semidesertica del Sindh, un centinaio di chilometri a nord di Karachi. Pochi minuti dopo, mentre i piloti stavano puntando su Nawabshah, la radio cominciò a gracchiare e qualcuno dette il contrordine: l’aereo poteva invertire la rotta e dirigersi su Karachi. Mentre Musharraf, il suo segretario e i piloti dell’Airbus si chiedevano che diavolo stesse succedendo, una persona che si qualificò come il generale Malik Iftikhar Ali Khan, comandante di una divisione di stanza a Karachi, arrivò al microfono e spiegò quello che era successo: “Signore, sono sicuro che lei non lo sa ma due ore fa è stato annunciato il suo pensionamento e il generale Ziauddin Butt è stato nominato capo dell’esercito. Stavano cercando di dirottare il suo aereo in modo che non atterrasse qui. Ma ora l’esercito ha preso il potere e l’aeroporto è sotto il nostro controllo. Ora può tornare. Le daremo i dettagli più tardi”.
I “dettagli” erano che l’ordine di dirottare l’aereo e di portare Musharraf lontano dal Pakistan era stato dato dal primo ministro Nawaz Sharif, e che l’esercito lo aveva deposto, mettendo fine all’ altalena che aveva visto succedersi al potere lo stesso Nawaz e Benazir Bhutto. Dopo undici anni di democrazia imperfetta, il Pakistan ritornava sotto una dittatura militare. Una dittatura ben diversa da quella precedente. Il leader non era il fanatico musulmano Zia ul-Haq ma il moderno e liberale Pervez Musharraf, che dichiarava: “mi piacerebbe essere ricordato come un riformatore, uno che ha favorito lo sviluppo del paese e l’instaurazione di un regime veramente democratico”. Il che, detto da qualcuno che per otto anni è stato dittatore del Pakistan, fa quantomeno sorridere. Eppure Pervez Musharraf, l’uomo che ha inventato il concetto di ‘dittatura democratica’, sembra credere davvero a ciò che dice senza coglierne, neanche per un momento, né le contraddizioni né l’ironia. Ma forse l’ironia non è una delle qualità necessarie né per diventare capo dell’esercito né, più tardi, per prendere il potere con un colpo di stato, seppure “soft”: durante la sua prima conferenza stampa ai giornalisti, Musharraf dichiarava di aver assunto il comando del paese “per il bene del Pakistan” e “soltanto per un breve periodo”. Quel giorno, il generale era uscito in alta uniforme per presentarsi all’incontro ma, intercettato immediatamente dal suo addetto stampa, era tornato indietro per uscire indossando un abito civile percepito forse come meno minaccioso. Era di ottimo umore, Musharraf, e subito dopo aveva presentato al paese un programma di riforme in sette punti che aveva ottenuto, nemmeno tanto inaspettatamente, un vasto consenso popolare e l’appoggio di molti partiti politici. L’alternanza al governo di Benazir Bhutto e Nawaz Sharif aveva seminato nel paese, per usare un eufemismo, una profonda disillusione nei confronti della classe politica pakistana, giudicata corrotta, inefficiente e inaffidabile. L’ennesima dittatura militare, in un paese che ai governi militari ha fatto ormai da tempo l’abitudine, non era una novità. La novità stava, invece, nella percezione di Musharraf come colui che avrebbe davvero potuto cambiare le cose e dare una svolta al paese.
Nato a Delhi, Musharraf è figlio di una famiglia di mohajir: di immigrati, cioè, nell’allora neonato Pakistan all’epoca della partition. Ha trascorso la sua giovinezza in Turchia, ad Ankara, dove ha concepito un’ammirazione senza limiti per Ataturk e per il suo Islam moderato. Tornato in patria, il giovane Pervez cresce a Karachi e viene educato in una scuola cattolica. Entra nell’esercito giovanissimo, dove si guadagna ben presto la fama di duro e puro, stellette a non finire e il lusinghiero titolo di ‘macellaio del Baltisan’ in memoria di una delle sue più riuscite campagne. L’amore di Musharraf per la divisa è, per sua stessa ammissione, sconfinato: dover rinunciare all’uniforme, nel novembre 2007, è stata una delle prove più grandi della sua vita. Come direttore delle operazioni militari, collabora attivamente con Benazir Bhutto e con le agenzie dei servizi segreti per formare e portare al potere i Taliban in Afghanistan. Viene nominato capo dell’esercito dall’allora premier Nawaz Sharif, che lo aveva, evidentemente, ampiamente sottovalutato. D’altra parte, Musharraf aveva fino a quel momento la fama di patriota e nazionalista, di uomo ligio al dovere e devoto al bene comune. Il nome del generale viene alla ribalta in modo clamoroso nel 1999, durante la cosiddetta guerra di Kargil, la cui genesi non è ancora stata del tutto chiarita: Sharif ha più volte dichiarato di non essere stato informato dell’invasione e che tutta la faccenda, in sostanza, non è stata altro che un’idea e una personale iniziativa di Musharraf. L’unica cosa certa è che il generale, a quel punto, è diventato un’aperta minaccia al potere del primo ministro. Che cerca di liberarsi del suo capo dell’esercito tentando di dirottarne l’aereo su cui tornava in patria dall’estero. Un conversatore, squisitamente educato anche quando risponde gelidamente a domande non gradite o fronteggia interlocutori detestati. Definito da parecchie persone affascinante, sorridente, con un gran carisma personale, Musharraf capisce immediatamente il potere dei media e lo usa senza ritegno. Attentissimo all’immagine, regala di sé un ritratto capace di suscitare nella popolazione un forte processo di identificazione: il ritratto di un borghese illuminato, religioso ma non integralista, che occasionalmente beve whisky e fuma sigarette ma che si reca comunque in pellegrinaggio alla Mecca. Padre di famiglia e nonno di quattro nipoti, amante dei cani e dello sport. E’ capitato spesso, ai giornalisti locali recatisi per partecipare a interviste o conferenza stampa, di trovare la first lady nel salotto di casa intenta, come tutte le signore middle class, a mangiare pizza sul divano guardando la televisione. La parola d’ordine del presidente-generale è “Illuminazione moderata”: e con questo intende il concetto di dittatura democratica di cui sopra. Incredibilmente nel 2004, in un sondaggio svolto da un istituto americano, Musharraf risulta il leader più popolare del mondo, riscuotendo un clamoroso 86% di consensi. Le cose, però, stanno per cambiare. Nella sua autobiografia In the Line of Fire, il presidente ha dichiarato di essere stato costretto, all’indomani dell’undici settembre, a unirsi alla coalizione guidata dagli americani nella guerra contro il terrorismo. Musharraf non ha altra scelta che collaborare con la coalizione internazionale, anche se il Pakistan ha fino a quel momento sostenuto attivamente il regime del mullah Omar. Comincia così la stagione degli equilibrismi del presidente, che ha ormai dimostrato di possedere un senso piuttosto elastico dello stato, delle istituzioni e della politica nazionale e internazionale. Realpolitik, la chiama. Nel 2002, Musharraf dovrebbe abbandonare la divisa da generale o dimettersi da presidente e indire, come più volte promesso, elezioni democratiche. Ma, “per il bene del paese” e con la tacita benedizione degli Stati Uniti che preferiscono un dittatore utile a un inutile democratico, il presidente rimane al suo posto e con la sua doppia e incostituzionale carica. In nome dei suoi princìpi, però, indice un referendum che lo porta, con voto quasi plebiscitario, a prolungare il suo regime di altri cinque anni. Sempre nella sua autobiografia, Musharraf dichiara di aver mancato alla parola data, e di non essersi dimesso dalla sua carica di generale, perché questo avrebbe “diminuito il suo potere” in un momento cruciale per il paese. Intanto, nonostante il generale continui a conservare ampie fasce di consenso popolare, il suo sostegno alla causa americana gli guadagna l’etichetta di traditore nelle zone di frontiera del paese e tra molti leader religiosi. Musharraf ha intanto inaugurato una stagione di riforme economiche, che portano il paese a crescere (almeno sulla carta) di un buon otto per cento annuo. Ha cercato di fare abolire l’Hudood, l’infame legge che spedisce in galera come adultere le donne vittime di stupro, ha alzato la quota riservata alle signore all’interno del Parlamento. Ha dato mano libera a giornali e televisioni, che sono protagonisti di un vero e proprio boom. I giornalisti vengono ogni tanto minacciati, scompaiono, rimangono uccisi in strani incidenti, ma questa è un’altra storia.
Come anche il fatto che, a dispetto del boom economico, la maggior parte del paese viva in condizioni disperate. Nel corso degli anni, l’immagine del dittatore democratico si appanna, e non di poco, sia agli occhi della popolazione pakistana che della comunità internazionale. A dispetto del sostegno dato alla lotta al terrorismo, l’integralismo islamico si diffonde in Pakistan in maniera esponenziale, complice anche la mancata registrazione e chiusura della madrasa integraliste più volte annunciata e mai cominciata. Le aree di frontiera esplodono, gli scontri tra integralisti ed esercito in Waziristan, nella North-West Frontier Province e nella Federally Admnistred Tribal Areas (FATA) assumono i contorni di una vera e propria guerra civile, con tutte le conseguenze del caso. La ribellione in Baluchistan, sedata in un bagno di sangue, acuisce tensioni etniche e separatismi mai sopiti. Esplode lo scandalo del traffico di materiale nucleare a opera del padre della bomba pakistana, Abdul Qadeer Khan: Musharraf si rifiuta di farlo interrogare dagli americani, e lo ‘perdona’ dopo un sommario processo. All’inizio del 2007, la popolarità del presidente è scesa al minimo storico. E continua a scendere nel corso dell’anno: prima a causa di una lunga querelle politico-giudiziaria con il giudice capo della Corte Suprema Mohammed Iftikhar Chaudry, licenziato e poi reintegrato a causa delle proteste popolari che si susseguono per mesi causando un discreto numero di morti. Poi, per l’episodio che a detta di tutti segna il vero punto di svolta nel declino del dittatore più democratico della storia: l’affare Lal Masjid.
La Moschea Rossa
Tutto comincia in sordina, con notizie che sembrano buone a riempire più che altro le pagine di costume. Da mesi, a Islamabad, gruppi di studenti che appartengono alle madrasa integraliste legate alla Lal Masjid (Moschea Rossa) che sorge nel cuore della città mettono in scena tutto il repertorio di azioni care alla memoria del regime dei Taliban a Kabul: cercano di far chiudere i battenti ai negozi che vendono film e musica distruggendo CD, nastri e VHS, picchiano uomini e donne che indossano abiti occidentali e anche le sciagurate guidatrici che si ostinano a guidare di persona le proprie autovetture. Niente di nuovo, tutto sommato, non fosse che le operazioni si svolgono a Islamabad e non nella provincia di Swat e che a compiere i raid e le spedizioni punitive sono più che altro ragazze. Studentesse della Jamia Hafsa, la madrasa femminile della Lal Masjid. Circa duemila ragazze paludate di nero che in febbraio, armate di bastoni e kalashnikov, tengono in scacco la polizia impedendo la demolizione di una vecchia moschea cittadina. Le battagliere signorine, forti del successo ottenuto, decidono di alzare sempre più la posta. Fino a sequestrare la tenutaria di una presunta casa di tolleranza e rapire, per poi rilasciare poche ore dopo, sei massaggiatrici cinesi. Le signore se la cavano con qualche tazza di tè, un vassoio di dolci e un lungo sermone sulla moralità e sulla modestia femminile. Pechino però, si dice, non apprezza affatto il gesto e ne chiede conto a Musharraf. La Cina sarebbe ormai stanca di assistere ai ripetuti omicidi e alle numerose violenze ai danni di cittadini cinesi, e minaccerebbe di ritirare gli investimenti in Baluchistan e gli aiuti per la costruzione di una nuova centrale nucleare. Gli americani, inoltre, ne avrebbero abbastanza del doppio gioco del presidente, e negli ambienti governativi gira voce che gli Usa avrebbero strappato a Musharraf l’autorizzazione di compiere apertamente azioni militari in territorio pakistano. Comincia una vera e propria campagna di stampa contro la moschea, che è gestita da due maulana: Abdul Aziz e Abdul Rashid Ghazi. I due fratelli sono in realtà due ex-funzionari governativi licenziati per detenzione illegale di armi da fuoco, aperti sostenitori dei Taliban, della legge di stretta osservanza islamica, detrattori del presidente e della sua politica estera. Tengono in scacco da mesi il governo, minacciando di autorizzare “i nostri seguaci a compiere attacchi suicidi”. Governo che, tra parentesi, ha fondato e finanziato con denaro pubblico la Jamia Hafsa. Pare che i due maulana e i loro seguaci siano protetti dagli uomini dell’Isi, che manovrerebbe abilmente tutta la faccenda. L’affare Lal Masjid comincia a montare. Un rapporto del Muttahida Qaumi Movement (Mqm), uno dei partiti che sostiene il generale Musharraf, sostiene che la maggior parte delle ragazze della Jamia Hafsa proviene dal Kashmir pakistano e dalle provincia di frontiera, e che le ragazze sarebbero state “comprate” o “rapite” alle famiglie. A scuola avrebbero ricevuto un completo lavaggio del cervello, e sarebbero state addestrate a compiere attacchi suicidi e a servire da ‘scudi umani’ in caso di attacchi alla moschea da parte delle forze dell’ordine. Lo stesso presidente Musharraf dichiara di essere certo che all’interno della moschea e delle sue madrasa si nascondono membri del Jaish-i-Mohammed, una delle organizzazioni terroristiche più attive dell’area, che stanno “indottrinando e preparando ad attacchi suicidi” i giovani (ragazzi e ragazze) che studiano all’interno delle scuole islamiche. La scintilla scoppia in giugno, quando gli studenti della Jamia Faridia, la madrasa maschile, armati di kalashnikov e bastoni ingaggiano un combattimento con le forze di polizia che avevano circondato la Lal Masjid. Secondo alcuni per impedire lo svolgimento di una manifestazione anti-governo e pro-sharia, secondo altri per cominciare una serie di perquisizioni. La lotta si trasforma presto in un vero e proprio assedio che vede studenti e studentesse, alcuni poco più che bambini, asserragliati all’interno della moschea e delle madrasa pronti a combattere contro le forze dell’ordine. La battaglia va avanti per quasi dieci giorni. La moschea è circondata dai reparti speciali dell’esercito pakistano e nei quartieri circostanti vige il coprifuoco. Sono state tagliate le forniture d’acqua e di energia elettrica. I soldati cominciano a far saltare porzioni delle mura di cinta, allo scopo di permettere alle donne e ai bambini usati, secondo il governo, come scudo umano, di scappare. Ragazzi e ragazze preferiscono però rimanere dove stanno e cercare il martirio. In compagnia, sostiene Musharraf, di almeno un paio di comandanti dell’Harkat-ul-Jihadi-i-Islami, l’organizzazione terrorista legata ad Al Qaida e colpevole, a quanto pare, dell’omicidio del giormalista americano Daniel Pearl, e di numerosi membri della Jaish-i-Mohammed: sembra a un certo punto che buona metà dei terroristi pakistani si sia data convegno nella Lal Masjid. L’Operazione silenzio, così è stata battezzata dall’esercito di Islamabad, costituisce una delle pagine più vergognose della lunga dittatura di Musharraf. Uno dei maulana viene ucciso, l’altro catturato mentre cercava di scappare vestito da donna. Del presunto arsenale che doveva trovarsi all’interno della moschea non si trova traccia, così come non si trova traccia di terroristi. Le cifre ufficiali parlano di centottanta morti, ma secondo le cronache non ufficiali i morti sarebbero in realtà più di cinquecento, in maggioranza donne e bambini. Ai giornalisti viene vietato l’ingresso sia negli ospedali che nella moschea sgomberata: Musharraf aveva dichiarato di essere disposto “a risolvere il problema” soltanto se le televisioni e i giornali non avessero mostrato i morti “per speculare”. Con l’affare Lal Masjid, il presidente riguadagna un momentaneo credito agli occhi della comunità internazionale e degli Usa, facendo dimenticare la costruzione di una nuova centrale nucleare finanziata dalla Cina e il suo doppio gioco in politica estera. Ma distrugge definitivamente, agli occhi della popolazione, la sua già appannata immagine di ‘dittatore buono’. Il massacro di cui si rendono protagoniste le forze dell’ordine infligge un colpo letale alla sua popolarità e apre la porta a una stagione di attentati senza precedenti. Nonché alla costituzione del Tehrik-i-Taliban-i-Pakistan, un’organizzazione che riunisce vari gruppi Taliban sotto la guida di Baitullah Mehsud allo scopo di “combattere le truppe di occupazione della Nato” in Afghanistan ma, soprattutto, di sconfiggere il governo di Islamabad accusato di genocidio per gli attacchi nelle regioni di frontiera contro cittadini pakistani.
Crepuscolo di un dittatore
Col paese sull’orlo del collasso e una situazione di legge e ordine sempre più deteriorata, Musharraf deve affrontare lo spinoso problema delle elezioni presidenziali e politiche. Con una serie di stratagemmi legislativi, indice le elezioni presidenziali su cui pesano, fin dall’inizio, gravi eccezioni di incostituzionalità. Le elezioni si svolgono nonostante molti parlamentari si siano dimessi per protesta, e il presidente stravince. Sul risultato pende però l’incognita del pronunciamento della Corte Suprema sull’ammissibilità della candidatura. E, ancora una volta, del suo incostituzionale doppio ruolo di capo dell’esercito e presidente. Il dittatore più democratico della storia ne esce da par suo: rivestendo cioè ancora una volta i panni del padre della patria e salvatore della democrazia e della libertà. Senza cogliere minimamente l’ironia della situazione, il 3 novembre 2007 dichiara lo stato di emergenza “per motivi di interesse nazionale” dettati dalla minaccia integralista ormai incombente, con riferimento all’ondata di attentati seguita all’affare Lal Masjid e alle minacce degli integralisti. In un discorso alla nazione, sostiene di non poter “permettere a questo paese di suicidarsi” e va avanti per la sua strada nonostante la frattura con il potere giudiziario sia ormai insanabile. La Corte Suprema, con una decisione definita ‘storica’ si rifiuta di ratificare lo stato di emergenza dichiarandolo “nullo e illegale”. Sessanta dei novantasette giudici che compongono la Corte si rifiutano di prestare giuramento in base alle nuove norme emanate ad hoc dal presidente. Cinquecento tra oppositori politici, attivisti, avvocati e giudici non disposti a sostenere il governo vengono arrestati. Musharraf ne approfitta per liberarsi di tutti gli oppositori alla sue rielezione, per licenziare tutti i giudici non compiacenti e soprattutto (ancora una volta) il giudice Chaudry diventato una specie di eroe nazionale, per imbavagliare giornali e televisioni, per regolare i conti con tutta una serie di oppositori politici. Qualcosa però bisogna pur concedere agli Stati Uniti, che vedono con preoccupazione sempre maggiore il deteriorarsi della situazione in Pakistan, l’avanzata dei terroristi e che, in tutto ciò, premono perché a Islamabad vengano rispettate, almeno formalmente, le regole della democrazia. L’emergenza viene revocata dopo poco più di un mese, un mese in cui gli attacchi suicidi e gli scontri tra esercito e integralisti raggiungono un picco decisamente allarmante. Durante questo mese, Musharraf abbandona quella che definiva “la sua seconda pelle”: si dimette cioè, con le lacrime agli occhi, da capo delle Forze Armate nominando al suo posto il generale Ashfaq Pervez Kayani, uno dei suoi fedelissimi ed ex-capo dei servizi segreti. Prima, però, provvede a sistemare una serie di cosette: anzitutto, il potere di revocare lo stato di emergenza passa, con un decreto d’urgenza, dalle mani del capo delle forze armate a quello del presidente. Sotto il controllo diretto del presidente vengono inoltre messi l’arsenale nucleare del paese e la National Command Authority (Nca) e al presidente resta attribuito il potere di sciogliere le camere e licenziare il primo ministro. Consolidate le sue posizioni e messi gli oppositori in grado di non nuocere, Musharraf può a questo punto occuparsi delle elezioni politiche che dovrebbero svolgersi l’8 gennaio 2008. Sulla scena politica pakistana si è riaffacciata, dopo anni di esilio, Benazir Bhutto: appoggiata dagli Stati Uniti, che vorrebbero continuare a dare una chance a Musharraf assicurandosi al tempo stesso un premier filo-occidentale. L’aver firmato a Londra un patto anti-Musharraf con Nawaz Sharif non impedisce a Benazir di stringere con Musharraf un tipico accordo di ‘democrazia alla pakistana’: il Pakistan People’s Party (Ppp), il partito di Benazir, assicurerebbe a Musharraf una rielezione (o la convalida della rielezione) anche in una competizione elettorale non truccata, mentre il presidente si impegna a modificare la legge elettorale per permettere alla Bhutto, che è stata due volte premier, di poter essere eletta una terza volta. Le accuse di corruzione che pendono contro Benazir, suo marito Asif Ali Zardari e molti membri di spicco del Ppp vengono cancellate da un “patto di riconciliazione nazionale”. Da cui viene escluso Nawaz Sharif che, rientrato in Pakistan con l’appoggio dei sauditi nonostante sia accusato di corruzione, peculato e dirottamento aereo, non potrà candidarsi alle elezioni. Benazir, che ha intanto rotto la trattativa con Musharraf e cerca di allearsi con Sharif contro il presidente, viene uccisa il 27 dicembre 2007 a Rawalpindi. E la sua morte si rivela un disastro politico per Musharraf e il suo governo. L’opinione pubblica e il Ppp fanno immediatamente ricadere la responsabilità dell’attentato sul presidente, sul governo e, soprattutto, sull’Inter-Service Intelligence. E Benazir, da politico inetto e corrotto, si trasforma in una martire della democrazia e della libertà. A questo punto, le quotazioni di Musharraf sono in picchiata. A capo del Ppp viene eletto Bilawal, il diciannovenne figlio di Benazir. Che però si limita a fare da paravento al co-presidente del partito, l’impresentabile Asif Ali Zardari. Le elezioni vengono rimandate al 18 febbraio. E mentre nei palazzi del potere si tessono e si disfano alleanze e si avanzano ipotesi sulle future mosse di Musharraf, che parte per l’Europa per uno charming tour volto a dare del ‘paese più pericoloso del mondo’ una immagine brillante, sicura e, soprattutto, ad attirare nuovi investimenti esteri e nuovi finanziamenti militari, nel paese cominciano a circolare storielle come questa: un pescatore torna a casa con un grosso pesce, e lo consegna alla moglie perché lo cucini. Ma la moglie reagisce violentemente: “Come vuoi che lo cucini? Non c’è luce, in casa, perché nel paese c’è la crisi dell’energia elettrica. E non c’è neanche gas per cucinare, perché il gas manca da giorni. E non posso usare il carbone, perché i prezzi, vista la crisi di tutto il resto, sono saliti alle stelle. E poi, se anche riuscissi ad accendere il fuoco, non c’è più olio in casa perché è diventato talmente caro che non ce lo possiamo permettere. E non c’è farina, perché nel paese c’è ormai da giorni la farina razionata”. Il pescatore, sconfortato, torna al fiume e ributta il pesce nell’acqua. E il pesce, mentre salta felice per tornare al fiume urla: “Musharraf Ji ho!!!” (lunga vita a Musharraf). Questa storiella e altre dello stesso tenore sono forse la fotografia più accurata, più accurata di mille sottili analisi socio-politiche, della situazione interna. E, soprattutto, degli umori della gente. Otto anni di dittatura ‘democratica’, e di crescita economica con cifre quasi pari a quelle della vicina India, hanno prodotto la storiella e, soprattutto, le condizioni che la hanno resa possibile. Quando in un paese si vedono contemporaneamente lunghe file di gente che aspetta davanti ai negozi un sacco di farina a prezzi non decuplicati, visto che la scarsità del prodotto come da manuale crea il mercato nero, e file altrettanto lunghe ai distributori di benzina e di gas per uso domestico (complice anche uno degli inverni più rigidi a memoria d’uomo), ma contemporaneamente a essere illuminate a giorno sono le sedi dell’incredibile numero di banche, soprattutto di banche estere (in un paese in cui il settanta per cento della popolazione non ha accesso al sistema bancario), e si invitano, allettandoli con ogni mezzo, ulteriori investimenti stranieri, significa che il sistema è sull’orlo del collasso. La crisi economica, gli attentati sempre più diffusi, l’ondata di antiamericanismo che comincia ormai a dilagare e, soprattutto, il fatto che Musharraf venga ormai percepito come un traditore del suo paese che ha venduto il Pakistan all’ Occidente, rendono scontato il risultato delle elezioni.
La disfatta
Dopo una campagna elettorale dalle atmosfere surreali, disputata principalmente dal fantasma della buonanima di Benazir contro avversari demoralizzati e in molti casi timorosi di un giocatore occulto, il generale Kayani, il Ppp vince le elezioni senza però ottenere il plebiscito sperato. Lo seguono a ruota la Pakistan Muslim League (N) di Sharif e il la Pakistan Muslim League(Q) che sostiene il presidente Musharraf. Zardari e Sharif, che non sono stati candidati alle elezioni, si alleano per governare. Non hanno la maggioranza di due terzi necessaria per abrogare le regole varate da Musharraf durante l’emergenza, ma questo è per il momento un problema secondario. A essere eletto premier è un membro del Ppp, Yousuf Raza Gilani, con l’appoggio della Pml(N). La strana alleanza formatasi dopo le elezioni e tenuta insieme soltanto dalla volontà di governare, dura però soltanto lo spazio di un mattino. Sharif dopo qualche mese ritira dal governo i ministri del suo partito, e garantisce soltanto un ‘sostegno esterno’ al Ppp. Mentre Zardari si dichiara in teoria pronto a collaborare con il presidente per il bene del paese, Sharif insiste per regolare i conti con il vecchio nemico. E visto che non gli riesce di convincere Zardari a reintegrare i giudici licenziati da Musharraf durante l’emergenza perché potrebbero annullare l’atto di rinconciliazione nazionale in virtù del quale sono caduti tutti i capi di imputazione a carico del vedovo di Benazir, chiede che Musharraf venga messo sotto inchiesta per chiarire una volta per tutte il ruolo da questi giocato nella guerra di Kargil. Domanda in particolare, entusiasticamente supportato da varie associazioni di avvocati e da settanta ufficiali delle Forze armate in pensione, l’incriminazione per alto tradimento di Musharraf perché l’attacco di Kargil sarebbe stato compiuto arbitrariamente e a rischio di grave pregiudizio per la nazione. La mossa non gli riesce, ma la posizione del presidente è sempre più precaria e i suoi giochi cominciano ormai a mostrare la corda. Musharraf non ha più alcuna credibilità, né all’interno del suo paese né all’estero. Gli Stati Uniti cercano ormai, e neanche tanto segretamente, alternative presentabili all’ormai compromesso dittatore democratico. Che, da parte sua, spedisce a Boston la sua first lady con il compito di arredare una casa recentemente acquistata. Politicamente, il presidente appare sempre più isolato: nessun uomo politico di un certo rilievo è più disposto a sostenerlo. Le contraddizioni e le incongruenze dell’uomo e del politico sono venute a galla, e appare sempre più difficile stabilire se Musharraf sia un dittatore sanguinario e senza scrupoli come sostengono alcuni, se sia un sincero democratico costretto dalle circostanze a giocare una partita truccata come sostengono altri o se invece sia un cinico e spregiudicato uomo politico che ha cercato di usare gli integralisti per ottenere denaro e potere e ne è rimasto travolto. Certo è che ormai il non più generale e presidente Musharraf è solo. E nei palazzi del potere di Islamabad comincia il conto alla rovescia.
Proprio nel giorno del suo sessantacinquesimo compleanno, al presidente viene richiesto dall’Assemblea provinciale del Punjab con una mozione votata a larga maggioranza di dimettersi o di presentarsi alle Camere per chiedere la fiducia del Parlamento. E Sharif e Zardari annunciano che, se le altre assemblee regionali voteranno mozioni analoghe, intendono mettere sotto impeachment Musharraf. Secondo Asif Zardari, il governo avrebbe trovato prova di un ‘fondo nero’ in cui sarebbero finiti circa 700 milioni l’anno, prelevati dal miliardo di dollari circa che gli Stati Uniti elargiscono annualmente al Pakistan per la lotta al terrorismo. Sempre secondo Zardari, l’esercito avrebbe ricevuto soltanto una minima parte degli aiuti stanziati. Il resto, sarebbe servito a finanziare schegge deviate dell’Isi. Musharraf sarebbe inoltre accusato di aver sospeso arbitrariamente per due volte, nel 1999 e nel 2007, le libertà costituzionali, di aver agito in modo contrario agli interessi nel paese e di incompetenza in campo economico e politico. Il presidente respinge sdegnato le accuse dichiarando di essere intenzionato a usare tutte “le risorse costituzionali” in suo possesso per sventare le mosse di Zardari e Sharif. Ma, come commenta qualcuno molto vicino al suo entourage “i topi cominciano già ad abbandonare la nave”. Si dice che perfino una parte della Pml-Q, difatti, sarebbe pronta a passare all’opposizione e a votare un eventuale impeachment. In teoria Musharraf potrebbe appellarsi contro l’impeachment con una petizione alla Corte Suprema, che gli è ancora fedele. O potrebbe sciogliere il Parlamento sostenendo che il governo mina la sicurezza nazionale, mancando di sostenere l’esercito e l’Isi e creando una crisi all’interno del paese. Potrebbe perfino dichiarare ancora una volta l’emergenza: in tutti i casi gli è necessario l’appoggio dell’esercito che, secondo voci di corridoio, nega il suo sostegno a un eventuale scioglimento del Parlamento o al ricorso all’emergenza. Secondo le stesse voci, però, né il generale Kayani né tantomeno l’Isi avrebbero intenzione di permettere al governo “di spingersi troppo oltre” senza reagire, e non permetteranno mai che Musharraf, capo dell’esercito fino al giorno prima e generale pluridecorato, venga pubblicamente umiliato. Per giorni vanno avanti colloqui serrati tra alcuni alti esponenti del Ppp e gli inviati di Stati Uniti, Gran Bretagna e Arabia Saudita. Secondo voci non confermate, si cerca di negoziare un ‘passaggio sicuro’ per il presidente che gli garantisca la possibilità di andare in esilio. Pare che a Musharraf, però, l’idea non piaccia affatto, e che domandi invece l’immunità e la garanzia di poter continuare a vivere nei dintorni di Islamabad con la protezione dovuta a tutte le ex-alte cariche dello stato. A tutte e due le opzioni si oppone ferocemente Nawaz Sharif, capo del Pml-N, che con Musharraf ha un conto personale da saldare, che sull’ipotesi di incriminazione ha giocato la sua campagna elettorale e che intende quindi processare e imprigionare l’ex-dittatore. Parvez Musharraf rassegna le sue dimissioni da presidente il 18 agosto del 2008 affidando il suo “destino nelle mani del popolo pakistano”. Musharraf si dimette, secondo quanto dichiarato, non per timore dell’atto di accusa destinato a metterlo sotto impeachment, ma per mantenere salva la dignità del paese e delle sue istituzioni. Nel suo discorso ribadisce la falsità di tutte le accuse rivoltegli dal governo, e la sua volontà di propiziare un processo di riconciliazione nazionale. Col volto tirato e senza un briciolo del suo stile abituale, sostiene: “Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto per il Pakistan e per il suo popolo…Per me, il Pakistan è sempre venuto e continua a venire prima…Ho difeso il mio paese per quarantaquattro anni, e continuerò a farlo”. L’annuncio delle dimissioni viene accolto con soddisfazione dal primo ministro Gilani e dagli esponenti dell’opposizione che esultano per il ritorno alla democrazia nel paese, e scatena manifestazioni di giubilo per le strade delle città pakistane. Le stesse manifestazioni di giubilo, per inciso, scatenate nell’ottobre del 1999 dall’annuncio del colpo di stato di Musharraf. Allora si festeggiava la liberazione dalla corruzione di Sharif, Zardari e della Bhutto; oggi, la liberazione da Musharraf e il ritorno di Zardari e di Sharif. Nove anni dopo la situazione è rovesciata, ma i giocatori sono ancora gli stessi. Musharraf, dalla sua residenza nella cittadella militare di Rawalpindi, si offre sorridente e rilassato alle telecamere e si dichiara pronto a godersi tutto il “tamasha” (confusione, più o meno, in urdu) che Zardari, Sharif e il loro governo democratico saranno capaci di provocare.
A volte ritornano
Due anni dopo, evidentemente stufo della vita da da pensionato di lusso conduce tra Londra e gli Stati Uniti facendosi profumatamente pagare per conferenze, lezioni e consulenze di vario genere, Musharraf decide che è giunto il momento di rientrare in politica. Fondando un nuovo partito, la All Pakistan Muslim League (Apml), che ha come simbolo un solitario falcone “l’unico pennuto che non vola in stormi ma preferisce la solitudine e la contemplazione delle alte vette”, come motto il tormentone preferito dello stesso Musharraf: “Pakistan first”, il Pakistan prima di tutto e nella sua sua presentazione grafica non manca di fare appello a tutto l’immaginario collettivo pakistano: il verde, la falce di luna dell’Islam, il volto del padre della patria Ali Jinnah che campeggia accanto a quello di Musharraf. La discesa in campo dell’ex-presidente viene ufficialmente annunciata a Londra il 1 ottobre 2010 dalla sede di un antico ‘gentleman’s club’ a Whitehall. Un centinaio di invitati, tutti pakistani e quasi tutti di sesso maschile, in gran parte uomini d’affari residenti negli Stati Uniti e arrivati apposta per l’occasione. Giornalisti selezionati, ammessi soltanto su esplicito invito dell’organizzazione. Su un grande schermo alle spalle dell’ex-presidente scorrono, prima dell’inizio della conferenza, immagini desolanti del Pakistan colpito dall’alluvione, dalla disoccupazione, dalla guerra, dalla crisi economica. Affiancate dai risultati ottenuti da Musharraf durante gli otto anni in cui del Pakistan è stato dittatore, presidente e generale, e dalle dichiarazioni di intento del suddetto. Che fa distribuire agli invitati un programma politico di una cinquantina di pagine elegantemente rilegato in bianco e verde. Rivestendo i suoi panni preferiti, quelli di salvatore della patria, l’ex-presidente ha deciso di scendere in campo per risollevare le sorti del suo paese, portato alla rovina dall’ennesimo governo corrotto e da politiche dissennate. Forte, dice lui, di un vero e proprio club che su Facebook comprende migliaia di fan che lo implorano di ritornare per riportare il Pakistan ai passati splendori e del successo ottenuto in una specie di Telethon televisivo che raccoglieva fondi per gli alluvionati. Musharraf, oltre ad aver donato personalmente qualche milione di rupie, ha raccolto fondi per una notevole cifra: fondi provenienti in gran parte dal Pakistan, da uomini d’affari e politici che, a quanto pare, conservano ancora più o meno in segreto un posto nel loro cuore per l’ex-presidente. Voci di corridoio sostengono che il partito dell’Mqm sostenga dietro le quinte l’ex generale e che molti vecchi compagni di partito sarebbero pronti a entrare nella All Pakistan Muslim League. Le stesse voci di corridoio raccontano anche che l’ex-generale si terrebbe in stretto contatto con il generale Kayani e altri membri dell’esercito. A cui il 30 settembre 2010, due giorni prima dell’annuncio ufficiale della sua discesa in campo, aveva lanciato precisi segnali durante una conferenza organizzata da Intelligence Squared. Nel corso della conferenza Musharraf ha evidenziato il ruolo fondamentale che le Forze armate ricoprono all’interno del Pakistan, teorizzando la necessità di un più incisivo e definito ruolo costituzionale del capo dell’esercito all’interno dei meccanismi democratici. Il concetto è questo: visto lo stato della classe politica pakistana, è fisiologico che la gente ogni due-tre anni si rivolga al capo dell’esercito per ‘salvare’ il paese. E i militari, allo stato attuale delle cose, non hanno altro mezzo per intervenire che prendere il potere con un colpo di stato. Prevedere un ruolo di garanzia costituzionale per il capo dell’esercito servirebbe evidentemente, almeno nelle intenzioni di Musharraf, a evitare ai militari la noia di dover fare sfoggio di muscoli per arrivare al potere. La nascita del nuovo partito si è meritata degli scarni trafiletti sui giornali pakistani ed è stata oggetto, più che altro, di velenosi commenti e grasse risate da parte degli oppositori e dei nemici personali, che non sono pochi, dell’ex-presidente. Alcuni illustri esponenti della stampa locale si domandano anzi come mai un ‘nessuno’ come Musharraf riesca ancora a fare notizia (e farsi pagare per le sue conferenze) all’estero. I commentatori politici sottolineano le possibilità praticamente nulle che Musharraf avrebbe di essere eletto nelle elezioni del 2013, visto che non dispone neanche di un collegio elettorale e che nessuno nel suo vecchio partito, almeno apertamente, sarebbe disposto ad assicurargli il suo sostegno. Altri, come l’ex comandante dell’Isi Hamid Gul e come un nutrito numero di giudici, evidenziano la possibilità piuttosto concreta che Musharraf avrebbe di finire in galera con l’accusa di alto tradimento non appena rientrasse in Pakistan: la dichiarazione dello stato di emergenza promulgato nel 2007 è difatti stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema. La lista di coloro a cui non dispiacerebbe, sia pure per motivi diversi, vedere l’ex-dittatore finire come la buonanima di Benazir Bhutto è lunga un chilometro e comprende, in ordine sparso, il succitato Hamid Gul, l’ex-premier Nawaz Sharif e il Tehrik-i-Taliban in massa. Nonostante tutto, però, il vecchio generale - “un soldato non smette mai di essere un soldato” - va avanti. Sotto metaforiche stellette il suo cuore batte ancora per servire la Patria (ovviamente con la P maiuscola) e da più parti, in Pakistan e all’estero, arrivano appelli all’ex campione della ‘dittatura democratica’ o della ‘moderazione illuminata’ perché torni a risollevare le sorti della sua disastrata nazione. Nazione che lui, in prima persona, ha contribuito ad affossare giocando sporco sia con gli alleati in Afghanistan che con Taliban e dintorni in patria. Ma questi, si sa, sono dettagli. Il Pakistan, in fondo, viene prima di tutto.