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Si chiamava Saman
  • Saman Abbas
    Saman Abbas
“Dove sono Ella, Kate, Mag, Lizzie e Edith
il cuore tenero, l'anima semplice, la sfacciata, l'orgogliosa e la felice?
Tutte, dormono tutte sulla collina”

(Edgar Lee Masters)



Si chiamava, Saman. Aveva 18 anni, e di lei rimangono soltanto foto postate sui social media e una storia agghiacciante. La ragazza, di origine pakistana, aveva chiesto aiuto ai servizi sociali, per ben due volte, per sfuggire a un matrimonio combinato dalla famiglia. Viveva in una struttura protetta ma era tornata a casa, fidandosi dei genitori, per recuperare alcuni documenti. Da allora, si perdono le sue tracce. I genitori e tutta la famiglia sono tornati all'improvviso in Pakistan per un presunto lutto. Lasciandosi alle spalle ogni memoria della figlia e un post su Instagram dei suoi piedi che calzano scarpe da tennis e quasi danzano sulla strada. Hashtag #italiangirl. Prima di Saman, in Italia, c'era stata Hina, ammazzata dai genitori perchè, come Saman, voleva essere italiana. Voleva essere libera di studiare e di scegliere la propria vita. Come Sana, riportata in Pakistan da Brescia con un trucco e sgozzata dal padre e dal fratello. Come Farah, che è stata più fortunata perchè è stata riportata in Italia dall'Ambasciata: avevano ucciso il bambino che aspettava da un ragazzo italiano, ma lei era ancora viva. O Memoona, che ha chiesto aiuto alla sua scuola ed è stata riportata in Brianza. E la lista potrebbe essere molto più lunga. Il copione è, più o meno, sempre uguale: la ragazza vuole studiare, vuole lavorare, frequentare i coetanei, sposare un ragazzo di sua scelta. Si inventa un matrimonio o un funerale in Pakistan, e si lascia là la ragazza. Per essere data in moglie contro la sua volontà o, più spesso, per essere uccisa quasi impunemente. Perchè, in Pakistan, quella contro le donne è una vera e propria guerra combattuta con l'arma letale del delitto d'onore. Circa tre donne vengono uccise ogni giorno per motivi legati all`onore familiare, e più di mille donne l’anno muoiono per delitti travestiti da ‘incidenti domestici`. Ogni due ore una donna viene rapita, seviziata o stuprata. Ogni otto ore, qualcuna è vittima di uno stupro di gruppo. Più del novanta per cento della popolazione femminile è vittima di qualche forma di violenza da parte dei familiari. Il comportamento femminile considerato come disonorevole comprende relazioni extraconiugali presunte o reali, la scelta di un marito contro il volere i genitori, la richiesta di divorzio. O, anche, l’essere stata vittima di uno stupro. Stupro che, dopo anni, nel 2007 è stato finalmente considerato dal Parlamento un delitto da codice penale e non un’offesa contro la morale punibile, quindi, secondo il famigerato Hudood, la legge islamica. Secondo l’Hodood, la prova dello stupro è a carico della donna che lo subisce. La signora deve poter produrre, per provare di essere stata stuprata, quattro testimoni musulmani e di sesso maschile. Altrimenti, viene processata d’ufficio per adulterio: crimine per cui la stessa legge prescrive la lapidazione. Secondo lo stesso Hudood, in generale, la testimonianza di una donna vale metà di quella di un uomo, e l’adulterio, o il sesso prematrimoniale, vengono considerati un crimine contro lo Stato e puniti di conseguenza. Secondo i pii compari dei partiti islamici, inoltre, nono esiste la violenza domestica. Attribuire a una donna il diritto di denunciare il marito o di chiedere il divorzio in caso di violenza domestica, mina alle fondamenta i sani principi su cui si basa la società pakistana. Quindi, la prima donna che è andata a registrare una denuncia per violenze domestiche a Lahore è stata rimandata a casa perchè le botte, se non arrivano alla tortura, costituiscono parte integrante della normale dialettica di coppia. Non ci si deve quindi stupire se gente come i genitori di Hina o di Saman o di Sana pensa di poter regolare 'alla pakistana' le proprie 'questioni d'onore' anche in Italia. E se la famiglia tutta congiura nel coprire i colpevoli. Non ci si deve stupire se le donne, come la madre di Saman, sono le prime protagoniste e molto spesso organizzano e coprono violenze e delitti nei confronti di altre donne, figlie, sorelle o nuore che siano. Il delitto d'onore, in Pakistan, è uno dei pilastri della società. Nel 2016 aveva fatto scalpore il caso di Qadeel Baloch, ammazzata dal fratello per aver disonorato la famiglia. Qadeel era una influencer e appariva in televisione o sui social media truccata e in 'abiti succinti'. La famiglia ha supplicato i giudici di perdonare il suo assassino in base alla legge, emendata dopo la morte di Qadeel, che permette all'assassino di non scontare alcuna pena pagando alla famiglia della vittima il cosiddetto 'prezzo del sangue'. Quanto vale in Pakistan la vita di una donna? Pochi spiccioli, pagabili da chiunque. E non si tratta di casi isolati o circoscritti a settori disagiati della società. Il premier Imran Khan di recente è andato in TV a dire che l'incremento esponenziali dei casi di stupro (impuniti) nel paese è da attribuirsi ai 'valori osceni' propagandati dall'India, dall'Occidente e dai film di Hollywood. Aggiungendo che se le donne osservassero rigidamente le regole islamiche in fatto di abbigliamento e condotta, e cioè segregazione totale, non ci sarebbero stupri. D'altra parte, il prode Imran si è anche rifiutato di confutare la teoria di un mullah locale considera il Coronavirus una punizione divina per i 'misfatti' compiuti dalle donne. Quelle relativamente poche coraggiose che in Pakistan marciano ogni 8 marzo al grido di “Non c'è onore nei delitti' e di “Mera Jism, Meri Marzi' (Mio il corpo, mia la scelta). Quelle che, per la libertà di scegliere, rischiano ogni giorno la vita. Come Hina, Saman, Sana, Farah e Memoona. Non c'è onore nei delitti, e l'omicidio non è cultura. E se e quando lo è, come nel caso del Pakistan, non può e non deve trovare posto in una società civile.
Francesca Marino
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