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Conflitti tra Cina, India e Pakistan
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La decapitazione di tre militari indiani che piantonavano la LoC, la linea di confine tra India e Pakistan riporta a un nuovo minimo, come se ce ne fosse bisogno, le ormai più che disastrose relazioni tra India e Pakistan. L'episodio, l'ultimo di una serie piuttosto nutrita di incidenti simili, ha scatenato via media e social media la solita tempesta di accuse, dinieghi e promesse di ritorsioni 'a tempo debito' tra i due paesi e riportato il gelo più totale nelle relazioni diplomatiche, già ai minimi storici nei giorni scorsi a causa della condanna a morte, in Pakistan, di un signore chiamato Kalbushan Jadhav. Una pericoloso spia indiana, secondo Islamabad, a capo di un network di spie che agiva in Balochistan per finanziare la guerriglia separatista. La storia, come spesso accade a queste latitudini, sembra uscita direttamente da un romanzo di terza categoria ed è tutto tranne che chiara. Coinvolge non soltanto l'India ma anche l'Iran, con cui però il Pakistan non ha alcuna intenzione di cominciare una guerra diplomatica. I fatti accertati sono più o meno questi: Jadhav, nato e cresciuto in India, è stato arruolato per quindici anni nella marina militare indiana come ingegnere. Dopo, si è trasferito in Iran, a Chabahar, dove ha messo in piedi un business di trasporti via mare di fertilizzanti che, a quanto pare, non andava per niente bene. In suo possesso sono stati trovati due passaporti indiani, entrambi falsi, a nome di Hussain Mubarak Patel e Husain Patel. Jadhav aveva anche un passaporto iraniano, con cui secondo l'Isi viaggiava in Pakistan. A fare il nome di Jadhav come capo di una rete di spie della RAW è stato un notorio criminale di Karachi, Uzair Baloch, che a quanto pare si è servito dell'informazione per mercanteggiare libertà e compensi con le forze dell'ordine pakistane.
Jadhav è stato preso, e tempo dopo l'ISI ha rilasciato un video in cui il prigioniero ammetteva di essere una spia indiana, di essere ancora in servizio attivo nella marina militare e di essere stato inviato in Pakistan sotto copertura per finanziare la guerriglia Balochi. Nei giorni scorsi Jadhav è stato condannato a morte da un tribunale militare: nei mesi della sua prigionia non è stato accordato il permesso di incontrare il prigioniero alle autorità consolari indiane né alla famiglia, l'avvocato di cui disponeva Jadhav è stato scelto dal tribunale stesso, gli atti del processo non sono stati resi pubblici. Il Pakistan ha dichiarato più o meno ufficialmente che la sentenza non sarà eseguita nell'immediato futuro, anche perchè tempo dopo è scomparso dal Nepal un membro dei servizi pakistani in pensione che si dice sia stato catturato dall'intelligence indiana per essere probabilmente usato come pedina di scambio, ma tra i due paesi è sceso il gelo più totale. Secondo gli indiani, Islamabad avrebbe inventato la spia Jadhav: e in effetti non è chiaro perchè una spia, a meno che non si tratti di un allievo dell'ispettore Clouseau, dovrebbe circolare con uno uno ma due passaporti falsi del paese per cui sta spiando, ad esempio. Risulta più plausibile che il nostro fosse una spia iraniana, teoria avanzata da più parti, ma l'ipotesi di una spia iraniana non fa comodo al Pakistan quanto questa.
Perchè Islamabad è ormai frenetica nel cercare prove e indizi che riescano a convincere la comunità internazionale del fatto che l'India finanzierebbe non solo i separatisti baluchi ma anche i Taliban del Tehrik Taliban – i- Pakistan e tutti coloro che attentano alla pace di quell'idilliaco paese chiamato Pakistan che, e questo sì è stato provato da decine di governi e think-tank internazionali, dell'allevare ed esportare terroristi come strumento di politica estera ha fatto il suo marchio di fabbrica. L'atmosfera del Paese dei Puri è resa più pesante anche dall'incertezza delle relazioni diplomatiche con gli Usa dovute alla quasi totale imprevedibilità dell'ineffabile Donald Trump. Così, Islamabad cerca di rafforzare vecchi e legami e crearsi nuovi cappi al collo mandando il generale Raheel Sharif a comandare agli ordini dei sauditi la cosiddetta 'Nato islamica', la Islamic Alliance mentre diventa ormai sempre più dipendente sia economicamente che politicamente dalla Cina. Mentre l'India continua con un certo successo a proseguire la sua strategia di isolamento diplomatico del Pakistan, cominciata da un paio d'anni. A essere onesti, certo, gran parte del successo della strategia diplomatica indiana si deve ai clamorosi autogol dei pakistani stessi: che incapaci di uscire da vecchie logiche forniscono sempre nuove occasioni a New Delhi per uscirne a testa alta. Incursioni sul confine, barbariche decapitazioni di soldati e, soprattutto, la ripresa in grande stile del conflitto in Kashmir. Conflitto che Islamabad cerca disperatamente e con ogni mezzo di internazionalizzare con offensive diplomatiche, discorsi alle Nazioni Unite e soprattutto con una capillare offensiva di cosiddette Ong finanziate dai servizi segreti, Ong che mirano a mettere in risalto le violazioni dei diritti umani compiute in Kashmir dall'esercito indiano.
L'esercito indiano d'altra parte ci mette del suo, come dimostra un recente e sconvolgente video di un ragazzo legato su una camionetta militare per impedire che i suoi compagni tirassero pietre alla camionetta suddetta e nessun governo indiano, tantomeno questo, è riuscito a dare a Srinagar e dintorni una risposta che non sia il trattare i propri cittadini come abitanti di un territorio occupato. A spalleggiare il Pakistan, in modo del tutto inedito, si è messa anche Pechino che sembra ormai decisa a rinunciare alla tradizionale dottrina del 'non-intervento': non soltanto mettendo bocca nella questione del Kashmir in cui, come dichiarato di recente da un giornale cinese, la Cina ha “interessi legittimi” e l'intenzione più o meno dichiarata di mediare tra India e Pakistan. Per via del CPEC, del corridoio economico tra Cina e Pakistan che passa per un paio di zone contese, come lo stesso Kashmir e il Gilgit-Baltisan e che l'India è decisa a contrastare per diverse ragioni. Così, tanto per rendere la situazione più distesa, la Cina è intervenuta sulla faccenda 'confini disputati' con una iniziativa ulteriore: non contenta di rilasciare visti diversi da quelli per gli indiani agli abitanti del Kashmir, riconoscendo implicitamente la zona come non facente parte dell'India, ha rinominato alcune zone della regione indiana (i cui confini sono soggetti a un'annosa disputa tra Cina e India) dell'Arunachal Pradesh, battezzandole 'South Tibet'.
Qualcuno, da questa parte del mondo, comincia a sentire (o a sperare, dipende dai casi) venti di guerra. Con l'arrivo della buona stagione le relazioni diplomatiche tra India e Pakistan, a causa della ripresa dei conflitti in Kashmir e anche delle varie offensive di primavera dei Taliban in Afghanistan, non possono che peggiorare. E la comunità internazionale, a quanto pare, ha di meglio da fare che occuparsi della tensione crescente tra due paesi che possiedono armi nucleari.
Francesca Marino